Una lezione all'Università di Baghdad (Reuters).
C'è troppa gente, da noi, che parla di immigrazione senza sapere nulla dei Paesi che producono emigrazione. Prendiamo un Paese in forte crisi come l'Iraq. Nel 2014, l'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni e il ministero degli Esteri del Regno Unito produssero una ricerca sui giovani iracheni. Ne risultò che il 99% dei giovani che vivevano nell'Iraq del Sud e il 79% di quelli che vivevano in Kurdistan (cioè al Nord) avevano intenzione di lasciare l'Iraq e andare a vivere all'estero.
Quello di cui non ci siamo mai resi conto è che in tutto il Medio Oriente e in certe parti dell'Africa gli anni Ottanta hanno visto verificarsi due fenomeni: il boom dei prezzi del petrolio, con relativo boom delle nascite (ovvio: la gente sta meglio, quindi fa più figli); e un'intensa politica di investimenti nell'istruzione. Più che in qualunque altra parte del mondo: circa il 5% del Prodotto interno lordo, facendo la media su Medio Oriente e Paesi arabi.
Venticinque anni dopo, questo ha scodellato sulla scena del mondo milioni di giovani (il 30% della popolazione mediorientale ha meno di 30 anni) molto istruiti e consci di esserlo. Una quantità di giovani persone pronte a fare la propria parte nella società ma impedite a realizzarsi da dittature inefficienti, autocrazie petrolifere, regimi incapaci di sollevare i Paesi da uno stato di mera sopravvivenza e di avviarli verso forme di democrazia più compiute e accettabili.
La spallata della cosiddetta Primavera araba è andata com'è andata: in pochi Paesi ha generato riforme più o meno importanti (Tunisia, Marocco, Giordania), in quasi tutti gli altri è stata stroncata con la violenza. Quale alternativa resta a dei trentenni magari laureati, competenti, convinti che in patria non avranno mai le possibilità che pensano di meritare? Ecco, appunto: emigrare.