La pagina ufficiale del Memoriale di Auschwitz-Birkenau, nei giorni scorsi, ha pubblicato alcune foto di ragazzi, in visita alle vestigia del più devastante campo di sterminio nazista, mentre giocano a stare in equilibrio sui binari. Poche e chiare le parole a corredo: «Quando venite al Museo di Auschwitz ricordate di essere nel luogo in cui oltre un milione di persone sono state uccise. Ci sono posti migliori per imparare a stare in equilibrio su una trave del luogo simbolo di centinaia di migliaia deportati alla morte».
Un messaggio che nella sua secchezza scabra contrasta con le immagini di gioco di ragazzi, studenti si presume, grandicelli. Quelli che si vedono nelle immagini sono più grandi di quanto non fossero i deportati che mi hanno affidato nel tempo le loro storie. Aveva 15 anni anni Edith Eger e sognava di danzare, a Birkenau ha perso sua madre e l’infanzia. Ne avevano appena 4-6 Andra e Tatiana Bucci, sopravvissute per caso perché credute gemelle, e poi sottratte per una coincidenza agli esperimenti di Mengele, cui è andato incontro il loro cuginetto Sergio De Simone, andato a morire convinto dall’inganno crudele di chi gli disse che sarebbe andato dalla mamma.
Erano al massimo adolescenti quelli che tutti, in un modo o nell’altro, abbiamo imparato a conoscere: Anna Frank, Liliana Segre, Sami Modiano e sua sorella Lucia. Anna e Lucia non sono tornate, gli altri dopo i mesi di deportazione sono tornati avendo perso per sempre, prima del tempo, l’età dei giochi. Per rispetto di loro bisognerebbe non arrivare a farsi dire dagli organizzatori del Museo che ad Auschwitz non è il caso di giocare. Vien da chiedersi come si arrivi, da studenti, laggiù nel cuore gelido della Polonia: se ci si arrivi preparati e quanto.
Si spera che non ci siano studenti italiani tra gli equilibristi, se non altro perché si spera che non si possa neanche ora uscire dalle scuole italiane senza aver letto Se questo è un uomo. O invece si può?