Caro direttore, l’11 aprile scorso c’è stato uno sciopero di 4 ore di Cgil e Uil, a cui ho aderito come operaio metalmeccanico e rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. In Emilia Romagna ci sono state otto ore di sciopero dopo la strage sul lavoro alla diga di Suviana, dove sono morti 7 operai.
Oramai non passa giorno che ci siano dei lavoratori morti. Siamo di fronte a un bollettino di guerra sul lavoro e credo che non possiamo fermarci alle fredde statistiche. Purtroppo, e lo dico con dispiacere, ci sono diversi mezzi d’informazione che usano il termine assurdo e ipocrita di “morti bianche”. Non c’è mai nulla di bianco in una morte sul lavoro! Negli anni ’60 li chiamavano omicidi sul lavoro…
La politica (tutta), ma in primis il Governo, ha il dovere morale di intervenire per fermare le tante, troppe stragi sul lavoro, perché ancora tanto resta da fare per la sicurezza sul lavoro. Il sistema dei controlli va potenziato non a parole ma con i fatti. Fino a ottobre del 2021 i controlli per la sicurezza sul lavoro erano in mano alle Asl con i tecnici della prevenzione, che dipendono dalle Regioni.
Invece di potenziare i controlli delle Asl, il cui personale ispettivo era ridotto all’osso, fu deciso di dare in mano il sistema dei controlli anche all’Ispettorato Nazionale del Lavoro. I due enti avrebbero poi dovuto coordinarsi tra loro per i controlli. Ma non mi pare che la situazione sia migliorata in questi anni.
MARCO BAZZONI
Caro Marco, la Festa del 1° maggio sarà ancora una volta triste per molte famiglie colpite da lutti e infortuni sul lavoro. L’esercito di persone che perdono la vita o che si infortunano in modo anche grave sui luoghi di lavoro ogni anno è uno scandalo che non conosce fine. Anche solo una vita persa è troppo. Un luogo, quello del lavoro, in cui si cerca la vita per dare senso e dignità alla propria esistenza, diventa invece lo spazio in cui si trova la morte. Morte non “bianca”, come giustamente dici tu, come se il colore della purezza mitigasse il dolore e il senso di ingiustizia che sgorgano da tanti cuori feriti.
Quel dolore sale a Dio con tutta la rabbia di una società che sembra non riuscire a porre fine a una strage continua. Come denunciava a gennaio il presidente delle Acli Paolo Ricotti, questa situazione, al di là delle parole di circostanza, non muove però la politica ad agire: «Sono considerati una cifra tutto sommato accettabile, anche se poi si fi nisce per piangere ogni volta che si scatena un episodio».
Molto triste. Ma non c’è solo la politica. Anche le imprese hanno le loro colpe quando sottovalutano i rischi, non investono in sicurezza perché costa troppo e questo ridurrebbe la produttività e i profitti, fiaccando uno dei principi fondamentali della Costituzione su cui si fonda il nostro Paese: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto» (art. 4). Renderlo effettivo vuol dire renderlo sicuro. Su questi aspetti non basta la repressione dopo il fattaccio, serve la prevenzione, cioè dei controlli più efficaci con sanzioni dure per chi sgarra.
«Ci sono numeri veramente ridicoli di risorse destinate alla vigilanza», denuncia ancora Ricotti. Giustamente il presidente delle Acli richiama anche alla necessità di formare i futuri lavoratori già dai banchi di scuola a conoscere e, quindi, a pretendere dai futuri datori di lavoro degli alti standard di sicurezza. Sensibilizzare, cioè, i giovani che in ogni categoria di lavoro esistono rischi di infortunio, di malattie professionali, di incontrare la morte.
La maggior parte degli incidenti, infatti, è causata da strutture non adeguate («che si possono correggere con impianti sanzionatori o premiando le imprese che invece si impegnano») o da sottovalutazione dei pericoli per opposti motivi: i giovani non conoscono i rischi, quelli più esperti li sottovalutano. Ma, ancor prima, occorre formare la coscienza civile di imprenditori e politici alla ricerca del vero bene comune, condizione fondamentale per una società giusta e libera.