Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode, perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: «Dall’Egitto ho chiamato mio figlio». Matteo 2,13-15.19-23
la storia dei primi anni di vita di Gesù è narrata nel Vangelo di Matteo come la vicenda drammatica dello slalom tra le trappole di un potere avverso e sanguinario; è la storia di una fuga precipitosa e di una vita da rifugiati in terra straniera, e, una volta tornati, passa per la prudenza di una vita di basso profilo, atta a contenere la minaccia latente. Una avventura tribolata e difficile.
La sete di potere di un tiranno ossessionato dal terrore di essere soppiantato – che trova riscontro nelle cronache storiche sul carattere di Erode il Grande – si oppone al più pacifico degli esseri, un neonato, e alla più inerme delle istituzioni, una giovane famiglia. Come possono sopravvivere a questo lupo feroce questi tre agnellini?
Eppure Giuseppe si muove bene e in mezzo alle tribolazioni porta a buon fine il suo compito. È lui l’attore di questa lotta impari che ha come controparte un re violento e privo di ritegno. Giuseppe si erge come Redemptoris Custos e viene a capo di tutti questi pericoli con la sua semplicità.
È il padre che tutti vorrebbero. Quello che non ti molla, che non ha paura di opporsi a chi ti minaccia, che sa come fare e trova la strada per farti crescere al sicuro.
È il marito che una donna spera di trovare, il padre che manca a tanti bimbi. È il prete che una parrocchia spera di avere. È il maschio che manca a questa generazione di uomini impauriti, incerti, confusi, ripiegati su sé stessi e privi di fermezza. È chiaro che in giro qualcuno di sostanza si può trovare, ma perché è così raro?
Cosa ha Giuseppe per essere così bravo? La sua dotazione è una serie di qualità peculiari? È un uomo eccezionale? Per quanto vogliamo bene e a buon diritto stimiamo san Giuseppe, bisogna dire che il testo di Matteo non fornisce questo tipo di indicazione, ma evidenzia un’altra cosa: questo uomo ha un dialogo con Dio.
Questo è un uomo che ascolta un angelo che gli appare e obbedisce alle sue indicazioni. È questo il suo segreto.
UNA SORGENTE NASCOSTA. Abbiamo innescato, un paio di secoli fa, un’antropologia tutta basata sull’autonomia e dopo aver cercato il super-uomo, la super-ideologia, il super-Stato, la super-società, ci siamo trovati con padri deludenti e latitanti, perché uomini minuscoli. E tante, tantissime donne sole. Ci si possono gonfiare i muscoli in palestra o il portafoglio in borsa, ma senza una spina dorsale profonda, senza il segreto di una sorgente invisibile e nascosta, l’uomo è sbiadito, inconsistente, trasparente.
Invece Giuseppe di Nazaret è solido, eppure non ha un centesimo di tutta la tecnologia o gli strumenti degli uomini di oggi. Possiamo continuare a cercare di acquisire mezzi e scienza, e statistiche o tecniche di tutti i tipi, e in realtà non ci muoveremo di una virgola quanto a qualità di umanità.
A Giuseppe basta dialogare con Dio per dribblare Erode. Non ci vogliono qualità particolari: serve piuttosto di smetterla di fare da soli e chiedere aiuto al Padre.
Occorrono padri che dialoghino con il Padre. Allora saranno meravigliosi.