Ero seduto, a Firenze, su una panchina, in riva all’Arno, nel grande parco delle Cascine. Due signore di mezza età si avvicinarono, discretamente. Una delle due tirò fuori dalla borsetta una piccola Bibbia. Siamo testimoni di Geova, mi disse... Con la stessa pacatezza, io rivelai la mia identità di cattolico persuaso. Ne seguì una lunga conversazione su quell’argomento proibito che è Dio. Si parlò di tutto: della divinità del Cristo, della vita eterna, della Chiesa cattolica... La mia serena e documentata convinzione le coinvolgeva. Arrivarono a farmi domande... E io, alla fine, mi alzai per salutarle. Chi si occupa delle verità supreme, con desiderio sincero, merita rispetto. Del resto, pensavo, l’uomo di tutte le fedi, quando è onesto, perviene in cima alla montagna della verità insieme ai suoi fratelli. Conservai tuttavia nel cuore una muta tristezza. Quelle due rispettabili signore fiorentine erano rimaste invischiate nell’eterno tranello: la negazione della divinità del Cristo, che è l’essenza stessa del cristianesimo. Successe per primo ad Ario, un prete egiziano del IV secolo. Sedusse masse di cristiani, vescovi e imperatori. Spaccò l’impero a metà. Scorsero fiumi di sangue... Tutto il mondo si trovò di fronte al dilemma: Cristo era Dio o un uomo assunto agli onori divini? Ci volle il concilio di Nicea per condannarlo ma la cosa andò avanti per secoli. Ario aveva dalla sua parte il sentire comune e la cultura platonica dominante: com’è possibile che Dio si contamini con la materia e s’identifichi con un uomo? Tale sentire è tornato a diffondersi, in modo subdolo, anche oggi. È più facile credere in un Dio unico universale, indefinito e astratto, piuttosto che ammettere che un uomo particolare, Gesù Cristo, vissuto nel tempo e nello spazio, possa essere Dio. Questo atteggiamento non è lontano dal cattolicesimo attuale: quando sentiamo il bisogno di ridimensionare la persona del Cristo, con il nobile pretesto di umanizzarla, presentando la sua consapevolezza divina come una progressiva acquisizione di Gesù, e trasformando i suoi miracoli (e la stessa sua risurrezione) in costruzioni mentali delle prime comunità cristiane. Il corollario è la trasformazione del mistero della Chiesa in un’azienda ben organizzata e il declassamento della carità, da virtù teologale, cioè da contemplazione del divino nell’umano, in operatività distributiva. Madre Teresa prima sostava due ore di fronte all’Eucaristia, poi andava ad abbracciare i moribondi divorati dalle formiche sui marciapiedi di Calcutta. Senza di Lui, diceva, siamo troppo poveri per occuparci dei poveri. Ma se non scatta il divino, a cosa serve la Chiesa? Solo quando è profondamente divina, la Chiesa riesce a essere umana, in modo convincente.
LUCIANO VERDONE - TERAMO