Il monastero di Santa Caterina, uno dei luoghi più affascinanti del Sinai.
Nemmeno l'esplosione che il 16 febbraio ha ucciso quattro turisti coreani nei pressi della località di Taba, nell'Egitto al confine con Israele, è riuscita a risvegliare l'attenzione sul dramma del Sinai, la penisola cara alla Bibbia e da millenni al centro di sanguinose contese.
L'esplosione della Primavera Araba in Egitto, con i suoi drammi e le convulsioni politiche, ha allentato il controllo del Governo centrale su una regione che in ogni caso, da anni, è una delle principali vie di transito della fuga verso il Mediterraneo, e in ultima analisi l'Europa, da molti Paesi dell'Africa. Il quotidiano Avvenire, che ha ben seguito questo dramma, ha calcolato che tra il 2009 e il 2013 sarebbero morte in quelle sabbie, di stenti o di violenze, almeno 15 mila persone. Un flusso che ingrassa l'industria del ricatto e del rapimento, oltre naturalmente a quella dell'immigrazione clandestina.
Il traffico di vite umane produce un fatturato di miliardi ed è gestito in condominio dalle tribù locali e dalle formazioni del terrorismo internazionale di stampo qaedista. Le prime alimentano in questo modo la loro insofferenza rispetto al governo centrale e all'amministrazione del Cairo, che con i loro fermenti è peraltro dovuta sempre scendere a patti: nel Sinai vivono circa 600 mila persone, un quarto delle quali ha sulla carta d'identità l'indicazione "nazionalità sconosciuta". E 11 battaglioni dell'esercito egiziano ancor oggi non possono dire di avere la situazione sotto controllo.
Le milizie islamiche, invece, investono la loro parte dei proventi nel traffico d'armi, contribuendo così a destabilizzare ulteriormente la regione. Armi che arrivano dalla Libia che si sta disgregando, dall'Eritrea della dittatura militare e persino da Israele, a dispetto del muro che lo Stato ebraico ha costruito per proteggersi anche su questo lato.
Su tutto questo che, ripetiamo, non è cosa nuova ma dramma che va avanti da anni, si sono inseriti in tempi recenti due "variabili" più o meno impazzite. La prima è l'ansia di rivincita dei Fratelli Musulmani: scalzati dai militari dal potere che avevano cercato di ottenere in modo esclusivo, messi fuorilegge e braccati dalla polizia, stanno cercando di infiltrarsi nel reticolo costruito da tribù e terroristi e di ritagliarsi un ruolo nell'opposizione al regime del generale Al-Sisi.
L'altra variabile, non meno imprevedibile, sono i palestinesi di Gaza, e Hamas che li controlla. L'Egitto è sempre stato per Gaza il principale polmone economico, grazie ai tunnel scavati sotto il deserto, a suo tempo tollerati persino da Hosni Mubarak. Da quando i palestinesi si sono schierati contro il nuovo Governo del Cairo, e hanno persino appoggiato alcune delle incursioni che hanno fatto decine di vittime tra i poliziotti e le guardie di frontiera egiziani di stanza nel Sinai, i tunnel sono stati chiusi e per la gente di Gaza la vita si è fatta quasi impossibile.
Il tutto in una regione, quella del Sinai, che ha accolto un gigantesco sviluppo turistico e dove nel giro di pochi anni sono sorte vere città e sono state realizzate oltre 30 mila unità abitative tra alberghi e condomini. Tutto sommato, è un miracolo che finora non sia successo di peggio. Ma il Medio Oriente, e i Paesi del Mediterraneo, Italia compresa, non possono più permettersi che il Sinai, da penisola che era, diventi un'isola socialmente, politicamente e militarmente alla deriva.