Caro don Stefano, la storia di Elena, accompagnata da Marco Cappato in Svizzera per porre termine alla sua vita, mi ha molto scosso, come mi scosse all’epoca quella, simile per quanto per molti aspetti diversa, del dj Fabo. Mi rendo conto che occorre avere rispetto per il dolore di chi decide di farla finita prima che una malattia conduca alla fine un’esistenza o che la renda insopportabile. Ma mi rimane un retrogusto di sconfitta, per il quale non ho altra risposta che la preghiera. TOMMASO - BARI
Caro Tommaso, il caso di Elena (foto) mi ricorda quello di una mia cara ex collega di lavoro che, poco dopo aver lasciato l’azienda per cui lavoravo prima di entrare in convento dai Paolini, si suicidò. Anche lei era affetta da una patologia oncologica terminale. Anche lei non riuscì a sopportare l’idea di morire vedendo il suo corpo disfarsi ulteriormente davanti alle persone che amava. Pregai e prego molto ancora per lei.
Così come mi associo alle tue preghiere per Elena, la donna veneta di 69 anni, ammalata di un tumore polmonare irreversibile con diverse metastasi, che ha deciso di farla finita in una “clinica specializzata” di Basilea. Credo che da cristiani non dobbiamo giudicare le persone che prendono queste decisioni estreme. Il nostro sentimento – e lo percepisco dal tono della tua lettera – non può che essere quello di una profonda compassione. Compassione, “patire con”, cioè fare un po’ anche nostro quel dolore che ha spinto queste sorelle a quel gesto estremo e presentarlo a Gesù, che comprende il cuore umano meglio di chiunque altro. Non possiamo però astenerci da una valutazione generale sulla pratica del suicidio assistito, che appare comunque problematica per la nostra coscienza. «La vita umana, a motivo della sua destinazione eterna, conserva tutto il suo valore e tutta la sua dignità in qualsiasi condizione, anche di precarietà e fragilità, e come tale è sempre degna della massima considerazione», ha spiegato papa Francesco nel 2020 all’Assemblea plenaria della Congregazione per la Dottrina della Fede.
Il “fine vita”, quando cioè la vita volge al termine, infatti, non è solo l’ultima fase della vita biologica, ma è quella che riassume tutte le altre e che in qualche modo le compie. Scartarla con un atto volontario mi sembra che vada a scartare tutta la persona. Quello di cui ha bisogno chi combatte con malattie inguaribili o disabilità gravi è, come ha detto sempre Francesco, «di avere accanto qualcuno che ci guardi negli occhi, che ci tenga la mano, che manifesti la sua tenerezza e si prenda cura di noi, come il Buon Samaritano della parabola evangelica». Un amore (fatto anche di quelle cure palliative, a cui tutti hanno diritto di accedere) che non arretra ma che avanza. Che avvolge.
E di cui noi tutti siamo chiamati a fare, secondo le circostanze, tutto il possibile nelle situazioni che ci è dato di vivere e condividere. Se non diamo risposte concrete e amorevoli alla sofferenza delle persone, la richiesta di morte rischia di presentarsi come lo sbocco finale della disperazione, della solitudine, dell’indifferenza, che contraddice, o non riconosce più, la fondamentale dimensione relazionale che ci unisce tutti e che inevitabilmente si riflette nelle scelte individuali. Per questo il caso di Elena è un appello alla nostra coscienza cristiana. Non possiamo nemmeno astenerci dal valutare questo caso da un punto di vista giuridico e civile. Marco Cappato, tesoriere della associazione Luca Coscioni, ha accompagnato Elena in Svizzera. Al suo ritorno si è autodenunciato ed è stato iscritto nel registro degli indagati della Procura di Milano per violazione dell’articolo 580 del codice penale, che punisce l’istigazione al suicidio, nella parte in cui è compreso anche l’agevolarne l’esecuzione. Il rischio teorico è una condanna fino a dodici anni di carcere; quello che accadrà è un processo che forse terminerà, come il precedente che riguardava la vicenda del dj Fabo (nome d’arte di Fabiano Antoniani, tetraplegico e cieco dal 2014 a causa di un incidente stradale e accompagnato da Cappato nel 2017 in Svizzera per accedere al suicidio assistito), con un ricorso alla Corte Costituzionale per mirare a ottenere una ulteriore depenalizzazione di tale reato. Nella sua sentenza sul caso sopra citato la Corte, infatti, aveva indicato alcuni parametri che il paziente deve presentare affinché l’aiuto al suicidio non sia penalmente rilevante: aver fatto una scelta consapevole e autonoma; essere affetto da una patologia irreversibile, causa di sofferenze insopportabili; essere dipendente da sostegni vitali (nutrizione e idratazione artificiale, ventilazione).
Non essendo stata la legge auspicata dalla Consulta ancora approvata dal Parlamento, i termini di questa sentenza hanno oggi valore di legge. Il caso di Elena, malata oncologica terminale, non rientrava quindi sotto l’ombrello della citata sentenza, in quanto non era tenuta in vita da sostegni vitali. L’intento di Marco Cappato è chiaro: mirare a un nuovo verdetto della Consulta che depenalizzi ulteriormente il ricorso al suicidio assistito anche per i malati oncologici e forzare il Parlamento ad allargare le maglie. Per arrivare, passo dopo passo, dove?
Forse a una legge che, alla fine di questo lungo percorso, renda facilmente accessibile anche in Italia il suicidio assistito? Con quale esito, se non quello – soprattutto di fronte a un’evoluzione demografica dell’Italia che vedrà tra non molto arrivare all’età anziana (e molto anziana) la massa dei cosiddetti “baby boomers” (i nati tra il 1946 e il 1964), e la probabile riduzione (almeno pro capite) delle risorse per la sanità pubblica –, di rendere quasi auspicabile e moralmente opportuno in un non lontano futuro “tirarsi giù dalle spese”, quando una malattia diventa cronica o gravemente inabilitante? Me lo chiedo da cittadino.