La reazione emotiva di Gianmarco Tamberi, campione del mondo indoor di salto in alto, che su Facebook si scaglia contro il possibile rientro di Alex Schwazer in squadra azzurra (la squalifica scade il 29 aprile 2016), è psicologicamente comprensibile (un po’ meno l’apostrofe ingiuriosa, che si poteva evitare).
E’ anche legittimo ritenere che, siccome lo sport senza regole è un guscio vuoto, sia una buona idea optare per la massima serverità: squalifica a vita alla prima positività. Si tratta dell’opinione più rigida possibile, ma è rispettabile. Altri saranno più favorevoli a un’idea più rieducativa e meno repressiva della pena, ma se ne può discutere. Di qui in poi. Liberissimi gli atleti, se lo ritengono, di premere sulla federazione internazionale a favore della linea dura.
Il problema, però, è che, nel frattempo, le regole prevedono che chi ha scontato la propria squalifica per doping, arrivato il nullaosta della Iaaf possa rientrare. Padronissimi di decidere che di qui in avanti ogni dopato accertato sia squalificato a vita, ma se anche cambiassimo domani in questa direzione dovremmo riconoscere che fino a oggi valgono le regole attualmente in vigore: Schwazer ha pagato il suo debito con la giustizia penale (ha patteggiato e collaborato) e sportiva (la sua squalifica è scontata) e per tanto con le regole attuali ha diritto, se la Iaaf mette il timbro, di tornare.
Di fronte a questo ci può stare l’indignazione dei compagni di squadra, ma non ci può stare il fatto che loro o altri pretendano una radiazione ad personam, perché dal momento che non è prevista dalle regole di lì passa il confine sul quale finisce il diritto e comincia l’arbitrio.