Sono pagine bellissime, pur
nella drammaticità che fa da
contorno. È la storia del profeta
Osea, vissuto nell’VIII secolo
a.C., la cui vicenda familiare è
narrata nei primi tre capitoli
del suo libretto ove, però, è trasfigurata
in simbolo religioso per tutto Israele.
La storia è nota: il profeta aveva sposato
un’ex prostituta (o forse una sacerdotessa
dei culti pagani della fertilità);
da lei aveva avuto tre figli, ma la donna
l’aveva abbandonato. In questa vicenda
tormentata possiamo ritrovare quel
rapporto tra famiglia e misericordia che
stiamo illustrando nella nostra rubrica.
Due sono i proli che vogliamo
ora descrivere. L’amore misericordioso
che sa perdonare può coesistere con lo
sdegno per l’offesa dell’infedeltà. È ciò
che brilla nel cap. 2 della confessione di
Osea. Egli, infatti, pur gridandole la sua
ira e l’amarezza per l’abbandono del tetto
coniugale, sogna che sua moglie Gomer,
delusa dagli amanti, riprenda il suo
posto accanto al focolare di casa, rimasto
deserto, con la sua famiglia. Dirà infatti:
«Tornerò dal mio primo marito! Con lui
ero ben più felice di adesso!» (2,9). E Osea
sarà pronto a perdonare tutto; anzi, con
lei vorrà celebrare un nuovo fidanzamento
e una nuova luna di miele.
Insieme si recheranno di nuovo nei
luoghi della loro giovinezza, si apparteranno
nella solitudine del deserto, si
abbracceranno l’uno sul cuore dell’altra:
«Ecco la sedurrò di nuovo, la porterò
nel deserto, parlerò al suo cuore
[letteralmente si ha: “sul suo cuore”]...
Là mi risponderà come nei giorni della
giovinezza» (2,16-17). Avvolta e travolta
da questo amore che cancella e perdona
il passato, Gomer ripeterà le parole
tenere dell’intimità nuziale: «In quel
giorno mi chiamerai: Marito mio! E
non più: Padrone mio!» (2,18). E Osea replicherà:
«Per sempre sarai mia sposa,
sarai mia sposa nella giustizia e nel diritto,
nell’affetto e nell’amore, sarai mia
sposa nella fedeltà» (2,21-22).
Il secondo profilo si trova in Osea
11,1-4. In esso è in azione la misericordia
paterna che si china con tenerezza
sul figlio, anche se un po’ capriccioso
e ribelle. Anche in questo caso la raffigurazione del padre che ha in braccio il
suo bambino diventa un simbolo della
relazione tra il Signore e il suo popolo.
Ecco la scenetta descritta dal profeta,
dove Dio parla a Efraim, cioè a Israele:
«A Efraim io insegnavo a camminare
tenendolo per mano, ma essi non
compresero che avevo cura di loro. Io li
traevo con legami di bontà, con vincoli
d’amore, ero per loro come chi solleva
un bimbo alla sua guancia, mi chinavo
su di lui per dargli da mangiare» (11,3-4).
È facile intuire la tenera premura di
questo padre che, tenendo per mano il
figlioletto gli insegna a camminare, che
lo stringe forte a sé, che lo solleva fino
all’altezza del suo viso per spingerlo a
mangiare, anche quando il piccolo non
ne vuole sapere e fa i capricci. Un quadretto
di intimità familiare che si collega
alla scena matrimoniale precedente
e che ricorda a tutti gli sposi e genitori
la necessità dell’amore misericordioso
per vivere insieme un’esperienza
non sempre facile. Come osservava lo
scrittore svizzero Max Frisch, morto
nel 1991, «nell’amore non si deve vedere
un punto d’arrivo, né un appagamento,
ma solo un continuo proseguire».