«Potessi tornare com’ero ai mesi andati, ai giorni in cui Dio vegliava su di me... quando Dio proteggeva la mia tenda, quando l’Onnipotente stava ancora con me... Il Signore ha dato, il Signore ha tolto...». Abbiamo scelto poche frasi alla fine (29,2.4-5) e all’inizio (1,20) dell’avventura di Giobbe, in attesa dell’esito terminale quando «il Signore Dio prese a parlare a Giobbe in mezzo all’uragano» (38,1). Non è certo esplicita, se non alla fine, la voce del Signore che risponde alla lunga protesta di questo sceicco orientale la cui vita è travolta e sconvolta non da una chiamata divina ma da un ciclone distruttore, tra l’altro sollecitato a Dio da Satana (1,6-12).
Eppure si potrebbe parlare di una vocazione di Giobbe secondo una via impervia, quella della prova, una chiamata alla fede che delinea una strada apparentemente scandalosa e senza ritorno, percorsa nei secoli anche da tanti altri fratelli e sorelle ideali di quest’uomo che viveva nella remota terra di Us. Cerchiamo, allora, di delineare questa chiamata che non ha voce ma è un atto misterioso di quel Dio che è chiamato spesso nel libro l’Onnipotente, in ebraico Shadday. Questo termine è nell’originale forse un richiamo all’immagine di un “monte”, quindi una divinità lontana e distante dai miseri uomini che avanzano nella polvere della valle.
L’opera, che è molto complessa e ha subìto interventi di mani diverse, è di altissima qualità umana, poetica e spirituale, ma per certi versi si presenta oscura. San Girolamo, il celebre traduttore latino della Bibbia (la Vulgata), confessava che voler spiegare questo libro è come «tentare di catturare un’anguilla o una piccola murena: quanto più la stringi, tanto più ti sguscia di mano». Infatti, non è facile individuare il punto nodale che tiene insieme questo scritto dalla struttura redazionale molto complessa. Comunque, possiamo pensare che il libro di Giobbe voglia dimostrare la presenza di Dio che chiama anche su un territorio dove di solito si celebra la sua assenza, un ambito segnato dal dolore e dal male, ove spesso si consumano le apostasie e anche il cielo sembra spoglio di presenze divine.
In questa atmosfera livida e tragica Giobbe si erge palesemente contro Dio. Troviamo pagine di una durezza estrema che, talvolta, un redattore finale ha cercato di attenuare, quando non addirittura di tagliare, perché troppo blasfeme. Giobbe diventa quasi l’avversario di Dio. Una divinità che sembra «un leopardo che affila gli occhi su di me per dilaniarmi la carne», un essere misterioso divenuto come un arciere sadico che punta le sue frecce sulla sua vittima, «simile a un generale trionfatore che sfonda il cranio» (vedi 16,7-14).
Eppure, Dio non cessa di chiamare Giobbe che si oppone alle teorie dei suoi amici “teologi” Elifaz, Bildad, Zofar ed Elihu, convinti che Giobbe sia stato abbandonato da Dio perché peccatore e quindi debba convertirsi a lui. Giobbe si rifiuta e, alla fine, Dio gli si presenta non per condannarlo, ma per chiamarlo a una scelta conclusiva. In questo personaggio troviamo, perciò, un modello di vocazione travagliata che ha come suggello l’incontro finale con l’estrema confessione di Giobbe: «Io ti conoscevo per sentito dire, ora i miei occhi ti vedono» (42,5). La vocazione, dunque, non è una vaga risposta, ma un incontro e una “visione” che possono nascere da un itinerario travagliato. E l’ultimo verbo della fede non è l’ascoltare, ma il vedere, cioè l’incontro personale.