Nel giorno in cui la Corte di Cassazione mette la parola fine con una condanna definitiva a 16 anni per l'omicidio della loro figlia, nelle parole dei genitori di Chiara, visibilmente emozionati, c'è una lezione di pacatezza e di equilibrio: "Volevamo giustizia per nostra figlia", ripete la mamma nel confidare di non essere mai stata tentata di arrendersi per stanchezza: "Giustizia è stata fatta, è la risposta in cui speravamo. Ma non si può gioire di una sentenza, non dobbiamo mai dimenticare che questa è una tragedia che ha colpito due famiglie: la nostra che ha perso una figlia giovane, quella di Alberto Stasi, che non l'ha perso ma…".
E a chi gli chiede se 16 anni siano giusti il papà di Chiara replica pacato: "Non tocca a noi stabilirlo, non siamo in grado. La Cassazione ha deciso, le regole sono queste e va bene così".
Proprio le persone che avrebbero diritto all'emotività esasperata, trovano parole pacate, sommesse e sensate.
Forse senza avvedersene, ci ricordano il nocciolo della questione che, nel raccontare e nel voler sapere, abbiamo finito per dimenticare: questa vicenda non era, non è mai stata e non avrebbe dovuto diventarlo, un romanzo criminale in cui dal bar alla Tv, in tutte le sedi improprie immaginabili, il primo che passava si è sentito in diritto di dire la sua, di giocare a "se voi foste il giudice" come in un gioco della settimana enigmistica.
Le parole dei genitori di Chiara ci riportano, finalmente, alla realtà: il processo, per quanto accidentato, non è un legal thriller, è un processo e ha le sue regole e le regole dicono che si espletano i gradi e che alla fine la Cassazione decide. E questa tristissima vicenda non è un romanzo giallo cui appassionarsi la sera, ma la tragedia di persone vere.
Tragedie e processi - e le persone che per colpa o per destino finiscono per averci a che fare - con ogni probabilità, troverebbero più facilmente giustizia, verità e una pace possibile al dolore, se questo rumore di fondo fosse meno assordante, meno invadente, se all'informazione, e all'intrattenimento per improprio che sia, in materia di giustizia ci si sforzasse di dare un'impronta più razionale, meno emotiva, meno da curva da stadio tra innocentisti e colpevolisti, più incline a spiegare e meno tentata di solleticare la curiosità morbosa.
Sarebbe bene che lo ricordassimo ora che finalmente, con la verità giudiziaria, calerà il silenzio sul dolore di queste due famiglie, su questa vicenda processuale, sulla storia di Chiara finita in fondo alle scale della sua casa di Garlasco, sulla storia di Alberto Stasi che salderà il suo debito con la giustizia (si è già costituito accompagnato dalla madre) e poi avrà diritto di ricominciare.