Come talora accade nel libro
della Genesi, alcuni eventi
sono presentati due volte
in forma differente e questo
è il frutto di tradizioni orali
preesistenti che vengono cristallizzate
in scritti, a loro volta raccolti
alla fine nel testo che ora leggiamo,
senza che sia operata una redazione
omogenea. È il caso della storia di Agar,
la schiava di Abramo, e di suo figlio
Ismaele, il progenitore degli Arabi:
essa è presentata sia nel cap. 16, sia nel
cap. 21 con notevoli varianti. L’elemento
di base sul quale vogliamo fissare la nostra
attenzione è l’esilio a cui è votata la
donna con il suo fanciullo.
Abramo, infatti, a causa della gelosia
della moglie Sara è costretto a espellere
dal clan Agar la quale erra sconsolata
nel deserto di Bersabea. Noi assumiamo
questo episodio per esaltare il tema che
guida le nostre riessioni bibliche, cioè
l’intreccio tra famiglia e misericordia.
In questo caso non è, certo, in azione l’amore
paterno perché Abramo – sia pure
di malavoglia – cede alle richieste di sua
moglie e vota la donna che ha reso madre
e suo figlio a morire di inedia nella
steppa desolata. La misericordia che entra
in azione per salvare questa famiglia
è, invece, quella divina.
Infatti, il racconto rivela un aspetto
straziante. Seguiamo la narrazione del
cap. 21. L’otre d’acqua e il pane che Agar
aveva ricevuto da Abramo sono finiti, i
due sono stremati dal caldo, la mano
terribile della morte sta per strangolare
il ragazzo. La madre non ha il coraggio
di vederlo morire sotto i suoi occhi, lo
depone all’ombra di un cespuglio e si
allontana dicendo: «Non voglio veder
morire il fanciullo» (21,16). Va più avanti
e sente a distanza il lamento di Ismaele
e allora si mette a piangere e a urlare.
Nel silenzio del deserto nessuno può
udire quel grido.
C’è, però, un orecchio che raccoglie
l’invocazione dei disperati ed è quello di
Dio, il quale manda un suo messaggero,
un angelo. Egli reca non solo una promessa
divina: «Alzati, prendi il fanciullo
per mano, perché io ne farò una grande
nazione» (21,18). Il figlio di Agar diverrà
appunto il capostipite degli Arabi, anche
se la tradizione islamica invertirà
con Isacco questa funzione di Ismaele.
Ma il Signore si preoccupa anche concretamente
di liberare questa donna e
suo figlio dalla desolazione fisica. Infatti,
«Dio le aprì gli occhi ed ella vide un
pozzo d’acqua. Andò allora a riempire
l’otre e diede da bere al fanciullo» (21,19).
È, questo, un gesto delicato della
provvidenza di Dio che non resta indifferente
alla preghiera delle sue creature,
conducendole alla salvezza. Non per
nulla nel racconto parallelo del cap. 16
il pozzo che disseta Agar è chiamato Lacai-
Roi, cioè il pozzo del “Vivente che mi
vede”, il Signore che vede e provvede e
che scioglie con il suo amore il dramma
di una famiglia. È un po’ quello che Dio
farà anche per l’altro figlio, Isacco, e suo
padre Abramo, nella celebre e più complessa
vicenda della prova del Monte
Moria narrata nel capitolo successivo, il
22. Il luogo del sacricio evitato di Isacco
verrà, infatti, chiamato da Abramo: «Il
Signore vede/provvede» (22,14).