Non di rado le cronache registrano
il dramma di neonati
abbandonati nei cassonetti
dei rifiuti o all’angolo di un
palazzo. Per fortuna non sempre
l’esito è tragico. Passa una
persona che sente il vagito e prende
tra le braccia il trovatello salvandolo e
persino, se possibile, adottandolo. Qualcosa
del genere sta alle origini di una - figura tra le più alte e amate della Bibbia,
Mosè. Alle spalle della sua storia c’è il
brutale controllo delle nascite dei bambini
ebrei imposto dal faraone di allora,
espresso attraverso questa norma
crudele imposta alle levatrici: «Quando
assistete le donne ebree durante il parto,
osservate bene tra le due pietre [il “sedile”
del parto]: se è un maschio, fatelo
morire» (Esodo 1,16).
Le ostetriche, però, opponevano
una sorta di obiezione di coscienza, salvando
molti maschietti ebrei. Il faraone
implacabile «diede allora quest’ordine
a tutto il suo popolo: Gettate nel Nilo
ogni figlio maschio che nascerà» agli
Ebrei (1,22). Entra ora in scena la famiglia
del piccolo Mosè, appartenente alla
tribù sacerdotale di Levi. La madre, vedendo
il figlio bellissimo che aveva partorito
di nascosto, non potendolo tenere
in casa perché la notizia si sarebbe diffusa,
lo affida al Nilo, ma deponendolo
in una cesta di papiro spalmata di pece
e bitume e incaricando la sorellina del
neonato di seguire il corso degli eventi.
È una storia familiare molto amara
di persone schiave che non riescono a
vivere la bellezza della maternità e della
discendenza. Ma è proprio in un contesto
così triste che sboccia la sorpresa.
La storia è nota ed è narrata nel cap. 2 del
libro dell’Esodo (vv. 1-10). Noi vorremmo
ora puntare l’attenzione sul tema
che in queste nostre riflessioni cerchiamo
di intrecciare con la vita familiare,
cioè la misericordia.
A scoprire il delizioso piccino in
quella curiosa barchetta è la figlia del
faraone, venuta sulla riva del Nilo a fare
il bagno. «Essa aprì il cestello e vide il
bambino: ecco, il piccolo piangeva. Ne
ebbe compassione e disse: “È un bambino
degli Ebrei”» (2,6). Ebbene, dobbiamo
badare proprio a quel verbo “aver
compassione”: in ebraico è hamal e ha
varie sfumature, tra le quali non solo
quella della pietà ma anche della tenerezza
che desidera liberare una creatura dal
suo male. Il fiore della misericordia sboccia,
allora, anche su un terreno così arido
com’è quello del potere e del benessere.
Questo sentimento farà sì che la
famigliola ebrea si ricomponga almeno
per un certo periodo perché la sorella di
Mosè, presente alla scena, segnalerà alla
principessa come nutrice proprio la
madre del bambino, il quale, cresciuto,
passerà a corte adottato dalla famiglia
del faraone. E sarà proprio questa la radice
da cui si leverà l’albero del popolo
ebraico non più oppresso e umiliato.
Una vicenda familiare ebrea cupa che si
apre, dunque, alla luce proprio per merito
di un atto di tenera misericordia da
parte di una donna straniera, la principessa
egizia. Una storia che speriamo di
trascrivere anche oggi, certi che la “compassione”
delicata può salvare tante piccole
creature abbandonate.