Va e ripara la mia casa che, come vedi, è tutta in rovina. Sono le (notissime) parole che Francesco d'Assisi ode dal crocifisso della chiesetta di San Damiano. Sono le stesse parole che il vescovo d'Assisi Domenico Sorrentino richiama per iniziare Crisi come grazia. Per una nuova primavera della Chiesa, un libro ricchissimo di considerazioni e di citazioni, di teorie e di buone prassi, di questioni e di proposte sul momento attuale della nostra Chiesa, a cui servirebbe una reformatio in capite et in membris (e non solo a lei, aggiungeremmo noi). Sorrentino non nasconde temi importanti, non gira attorno alle parole: dice le cose come sono e come potrebbero essere se si assumesse la prospettiva giusta, se si ponesse al centro la realtà, tenendo conto che il tempo si è fatto breve, che le resistenze e le pigrizie non sono poche, che a volte verrebbe voglia di domandarsi se siamo ancora tutti la stessa Chiesa.
Peraltro la Chiesa ha una lunga esperienza di crisi, visto che in ogni epoca ha sempre camminato con le crisi: e forse con le crisi la Chiesa manifesta il meglio del suo potenziale di grazia. Soprattutto perché – dal punto di vista del metodo – essa sa che guardare alla crisi è guardare all'uomo, in carne e ossa, un uomo che oggi respira scetticismo perché ogni verità si riduce a opinione e impressione: un paganesimo di ritorno sotto molte fogge. Sono evidenti alcune tendenze contemporanee che l'autore raccoglie in un geometrico “triangolo della crisi”: crisi del pensiero, crisi delle relazioni, crisi della solidarietà. Tra le conseguenze nefaste di questo triangolo vi è anche la crisi della democrazia. La Chiesa ha superato lentamente, e soprattutto grazie all'urto della Seconda guerra mondiale, la sua diffidenza verso la democrazia. Dalla teoria delle due spade di San Bernardo di Chiaravalle ai radiomessaggi di Pio XII la strada è stata lunga. Ma oggi, di fronte alla crisi della democrazia la Chiesa non può ritirarsi in un aureo isolamento, afferma l’autore.
La Chiesa, peraltro, faticò con la democrazia esattamente come faticò con l'avvento della rivoluzione industriale. E oggi? È forse più preparata rispetto a questo ennesimo cambio d'epoca? La crisi dell'uomo, del logos, della Chiesa, della democrazia: tutto cambia in pochissimi anni (peraltro l'autore ricorda che a Gesù bastarono tre anni per cambiare tutto, quindi...). In questo mutamento di scenario è evidente che i campanili non sono più il centro dei nostri abitati e la comunità cristiana deve imparare a conoscere più i campanelli, che i campanili. Dunque serve concretezza anche nel desiderio di portare la Buona novella, anche nella scelta della pastorale giusta: in una società così chiassosa, forse si rivelerebbe utile riscoprire la parola del silenzio, così come di fronte all'eccesso di astrazione e alle fumerie della metafisica sarebbe positivo recuperare la pedagogia della parabola, dell'esperienza narrata e dell'esperienza umana. E anche la parrocchia va recuperata, perché è ancora un modello importante, perché integra bene il triduo liturgia, catechesi, carità attraverso una quarta dimensione: la Chiesa come laboratorio di fraternità. L'autore cita a questo proposito lo straordinario finale della lettera di Paolo ai Romani, con quella sterminata sequenza di volti, di case e di relazioni che indicano dove vive l'esperienza mistica del cristiano. Nelle parrocchie vive anche il clero è una grazia (mentre il clericalismo si rivela una disgrazia).
Il libro si conclude con una riflessione su cosa sarà della Chiesa di questo tempo, all'epoca del Covid19. Sorrentino richiama un pensiero di Yves Congar. In mancanza di profeti – scriveva il teologo francese – Dio ci invia talvolta, negli avvenimenti, dei maestri di sua mano. Si tratta di duri maestri. Trarre insegnamento dagli avvenimenti è misura di grande sapienza, in effetti: e questo tempo di pandemia ci dice molte cose. A volte troppe, e neanche troppo comode. Ma non dobbiamo lasciarci prendere dallo sconforto, perché abbiamo la certezza della speranza che solo a Dio spetta dirigere la storia. A noi – invece - il compito di gettare piccoli semi. È un affidamento che lascia... un finale aperto ma speranzoso: non si sa come va a finire, ma abbiamo fede. La metafora dei piccoli semi la usiamo anche per dire che scrivere libri così è uno di questi piccoli semi gettati nel campo.