"Voi tutti che passate per la via, considerate se c’è un dolore simile al mio, al dolore che ora
mi tormenta: il Signore mi ha afflitta nel giorno della sua ira ardente."
(Lamentazioni 1,12)
Nel 1958 il grande musicista russo Igor Stravinskij elaborava una composizione per coro e orchestra intitolata Threni, un termine greco che significa “Lamentazioni”. Infatti, alla base di quell’opera c’era la raccolta di cinque elegie che la tradizione ha attribuito a Geremia e che sono entrate nella Bibbia proprio dopo il libro di quel profeta.
Si tratta di poemetti di tragica bellezza e di straordinaria intensità al cui centro risalta Gerusalemme, la città santa devastata dalle truppe del re babilonese Nabucodonosor nell’anno 586 a.C. Essa è raffigurata come una vedova sconsolata che lancia al cielo l’eterno interrogativo dei sofferenti (che è anche la prima parola ebraica della prima Lamentazione e che ha dato il titolo dell’intera raccolta secondo la tradizione giudaica): ’ekah, “come mai?”.
La vedova Gerusalemme si rivolge sia al Dio giudice inesorabile sia agli spettatori perché
entrambi abbiano compassione e donino conforto. Ma – come si intuisce nel frammento da noi evocato e suggerito amo’ di invito alla lettura integrale di questi gioielli di poesia e di umanità – le cinque Lamentazioni sono anche un’accorata meditazione sulla causa ultima di quella tragedia, ossia sul peccato umano e sul giudizio divino.
Non sono stati, allora, i Babilonesi a incendiare e a massacrare. In azione, attraverso le loro mani, era Dio stesso simile a un vendemmiatore che pigia l’uva della vigna d’Israele, spremendone sangue: «Il Signore ha pigiato nel torchio la vergine figlia di Giuda» (1,15).
Si apre, quindi, idealmente uno squarcio nelle mura della cittadella misteriosa del dolore. Certamente, questa non può essere l’unica soluzione di fronte a un tema così vasto e misterioso. Tuttavia, è indubbio che un’ampia fetta di sofferenza dell’umanità nasce dalle ingiustizie perpetrate da molti. Il dono della libertà si rivela spesso come un ordigno che è tra le nostre mani ed esplode ferendo noi e gli altri. Ma rimane nell’analisi di queste pagine bibliche crude un altro sapore in bocca al lettore ed è quello dell’amore per le proprie radici, che si rinvigoriscono proprio nel giorno della prova. Sion «piange amaramente nella notte, le lacrime rigano le sue guance. Nessuno la consola fra tutti i suoi amanti. Tutti i suoi amici l’hanno tradita, le sono divenuti nemici» (1,2). Il linguaggio amoroso serve non solo a definire gli antichi alleati che hanno tradito, ma anche il tradimento stesso di Israele che era andato a cercare divinità straniere, inquinando la sua
religiosità, avvelenando la sua stessa identità culturale e spirituale.
«Per questo», continua, allora, la vedova Gerusalemme, «piango e dal mio occhio scorrono lacrime, perché lontano da me è chi consola, chi potrebbe ridarmi la vita», cioè il Signore, la sorgente della vita e della speranza (1,16). Essa protende le mani, abbattuta nella polvere, e grida: «Guarda, Signore, quanto sono in angoscia!» (1,20). La domanda finale che suggella la quinta e ultima Lamentazione lascia aperta la via all’attesa, pur nello scoramento: «Ci hai forse rigettati per sempre, e senza limite sei sdegnato contro di noi?» (5,22). Ma questa stessa frase è da alcuni studiosi resa in modo affermativo: «Non ci hai rigettati per sempre e non sei sdegnato con noi sino alla fine». La fiammella della speranza rimane, dunque, sempre accesa.