«Quando era ancora
lontano, suo padre lo
vide, ebbe compassione,
gli corse incontro, gli si
gettò al collo e lo baciò.
Il figlio gli disse: “Padre,
ho peccato verso il Cielo
e davanti a te; non sono
più degno di essere
chiamato tuo figlio”.
Ma il padre disse ai servi:
“Presto, portate qui
il vestito più bello
e fateglielo indossare,
mettetegli l’anello al
dito e i sandali ai piedi.
Prendete il vitello
grasso, ammazzatelo,
mangiamo e facciamo
festa, perché questo
mio figlio era morto
ed è tornato in vita,
era perduto
ed è stato ritrovato”.
E cominciarono
a far festa».
Luca (15,1-32)
Misericordia infinita
Il lungo brano di Vangelo di oggi ci aiuta a comprendere la misericordia di Dio come infinitamente più grande e generosa, pienamente
libera e sciolta da ogni criterio umano,
anche il più saggio.
L’avvio è dato dai farisei e dagli scribi, da
una loro mormorata constatazione la cui evidenza
sta sotto gli occhi di tutti: «Costui accoglie
i peccatori e mangia con loro». Ma Gesù
non si scompone.
Preferisce approfondire
l’argomento, la cui centralità nel Vangelo è
volutamente ribadita.
Siamo davvero al cuore
dell’insegnamento di Gesù e della sua
missione di salvezza.
La misericordia di Dio – quasi “caparbia” –
viene rivelata nelle prime due parabole come
una particolare attenzione non al numero ma
alla persona: tutti sono parte dello stesso gregge,
tutti membri dello stesso popolo, tutti costituenti
lo stesso tesoro di Dio. E ciascuno è prezioso
ai suoi occhi! Per quanto paradossale possa
essere la scelta del pastore, che «se ha cento
pecore e ne perde una... lascia le novantanove
nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché
non la trova», è proprio questa la misericordia
che raggiunge e distrugge i nostri peccati.
Non solo: il nostro rientro nell’ovile sulle spalle
del pastore è motivo di esultanza per Dio,
che «pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a
casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro:
“Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia
pecora, quella che si era perduta”».
Sì, proprio quella pecora lì: come ci starebbe
bene il nome di ciascuno di noi stampato nel
testo evangelico! Ma siamo davvero troppi per
le poche pagine di cui constano i Vangeli, mentre
non siamo affatto troppi nel pensiero e
nel cuore di Dio, il Pastore buono e bello.
L’ultima parabola, forse la più narrata e ricordata
tra le molte presentate dal Signore
Gesù, è quella che più stupisce e, forse, più ci
scandalizza: la figura del fratello maggiore,
infatti, sembra essere un “commento” un po’
deluso di Gesù rispetto alla scandalizzata meraviglia
di quanti vorrebbero vedere solo la
giustizia punitiva di Dio, nel cui Regno molti
criteri umani sono rovesciati e disattesi, a
partire dal criterio della misericordia.
Oggetto di tale misericordia è qui un figlio
che decide di “diventare adulto” e di andarsene
da casa: ormai “maggiorenne”, vuole godersi
il meglio della vita e non sottostare più
ai collaudati criteri di discernimento tra ciò
che è bene e ciò che è male.
Perduto il bene che aveva, non ha altra scelta
che subirne le conseguenze o appellarsi,
magari con furbizia, alla bontà del padre, quasi
approfittarne.
Per quanto strano possa sembrare,
il colmo della parabola, ciò che solleva
tante perplessità nel fratello maggiore (ma
forse anche in noi) sta nel modo in cui il padre
accoglie di nuovo a casa il figlio più piccolo:
non gli lascia terminare la richiesta di
perdono, subito gli restituisce tutta la dignità
di figlio e fa una grande festa.
Molti, anche tra noi, restano perplessi; ma per nostra
immensa fortuna Dio è fatto così: così per
tutti coloro che dovessero essere come il figlio
della parabola, che «era morto ed è tornato in
vita, era perduto ed è stato ritrovato».