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Rito romano Aggiornamenti rss don Gianni Carozza

XXIV domenica del Tempo ordinario (anno C) - 15 settembre 2013

«Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa».
Luca (15,1-32)

Misericordia infinita

Il lungo brano di Vangelo di oggi ci aiuta a comprendere la misericordia di Dio come infinitamente più grande e generosa, pienamente libera e sciolta da ogni criterio umano, anche il più saggio. L’avvio è dato dai farisei e dagli scribi, da una loro mormorata constatazione la cui evidenza sta sotto gli occhi di tutti: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ma Gesù non si scompone.
Preferisce approfondire l’argomento, la cui centralità nel Vangelo è volutamente ribadita. Siamo davvero al cuore dell’insegnamento di Gesù e della sua missione di salvezza.

La misericordia di Dio – quasi “caparbia” – viene rivelata nelle prime due parabole come una particolare attenzione non al numero ma alla persona: tutti sono parte dello stesso gregge, tutti membri dello stesso popolo, tutti costituenti lo stesso tesoro di Dio. E ciascuno è prezioso ai suoi occhi! Per quanto paradossale possa essere la scelta del pastore, che «se ha cento pecore e ne perde una... lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova», è proprio questa la misericordia che raggiunge e distrugge i nostri peccati.

Non solo: il nostro rientro nell’ovile sulle spalle del pastore è motivo di esultanza per Dio, che «pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”». Sì, proprio quella pecora lì: come ci starebbe bene il nome di ciascuno di noi stampato nel testo evangelico! Ma siamo davvero troppi per le poche pagine di cui constano i Vangeli, mentre non siamo affatto troppi nel pensiero e nel cuore di Dio, il Pastore buono e bello.

L’ultima parabola, forse la più narrata e ricordata tra le molte presentate dal Signore Gesù, è quella che più stupisce e, forse, più ci scandalizza: la figura del fratello maggiore, infatti, sembra essere un “commento” un po’ deluso di Gesù rispetto alla scandalizzata meraviglia di quanti vorrebbero vedere solo la giustizia punitiva di Dio, nel cui Regno molti criteri umani sono rovesciati e disattesi, a partire dal criterio della misericordia. Oggetto di tale misericordia è qui un figlio che decide di “diventare adulto” e di andarsene da casa: ormai “maggiorenne”, vuole godersi il meglio della vita e non sottostare più ai collaudati criteri di discernimento tra ciò che è bene e ciò che è male. Perduto il bene che aveva, non ha altra scelta che subirne le conseguenze o appellarsi, magari con furbizia, alla bontà del padre, quasi approfittarne.

Per quanto strano possa sembrare, il colmo della parabola, ciò che solleva tante perplessità nel fratello maggiore (ma forse anche in noi) sta nel modo in cui il padre accoglie di nuovo a casa il figlio più piccolo: non gli lascia terminare la richiesta di perdono, subito gli restituisce tutta la dignità di figlio e fa una grande festa. Molti, anche tra noi, restano perplessi; ma per nostra immensa fortuna Dio è fatto così: così per tutti coloro che dovessero essere come il figlio della parabola, che «era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato».


11 settembre 2013

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