Il quindicenne Ahmid racconta che i suoi vicini venivano uccisi come montoni. Con un taglio al collo.
Sani, 10 anni, disegna una gola recisa. Vive nelle tendopoli di Sayam Forage in Niger e spiega le sagome che sta colorando: «Quando siamo usciti dall’acqua, un uomo ci ha puntato un fucile dicendo che era di Boko Haram. Dopo ci ha preso».
Poche ore prima la bambina si trovava in una scuola coranica del Borno, nel nord della Nigeria, quando il maestro ha dato l’allarme.
La fuga, buttandosi in un fiume, e poi la cattura da parte degli islamisti affiliati all’Isis. Anche Ahmid si è nascosto nell’acqua, attraversando il Lago Ciad.
Ha corso da solo per giorni e mangiato erba fino a mettersi in salvo nel campo profughi di Dar es Salam.
«Ma non so se rivedrò mai i miei genitori», dice.
Sani e Ahmid fanno parte degli
800 mila minori costretti ad abbandonare le proprie case dal conflitto nel nord-est della Nigeria tra Boko Haram, le forze militari e i gruppi di autodifesa civile.
Contando anche gli adulti, si arriva a un milione e mezzo di sfollati, 200 mila dei quali rifugiati in Niger, Ciad e Camerun.
Dal 2009, quando Boko Haram ha iniziato gli attacchi,
i morti sono stati 15 mila, tra cui 7.300 nel 2014 e mille nei primi tre mesi dell’anno. Sono i dati forniti dall’
Unicef nel rapporto “Infanzia perduta”, presentato a un anno dal rapimento delle 276 studentesse di Chibok, duecento delle quali sono ancora nelle mani dei miliziani.
«Solo una delle tragedie», dice
Manuel Fontaine, direttore dell’Unicef per l’Africa occidentale e centrale.
I bambini vengono utilizzati da Boko Haram come combattenti, cuochi, facchini e vedette, mentre le ragazzine sono sottoposte a matrimoni forzati, obbligate a lavorare e subire stupri. Anche le milizie organizzate in opposizione agli islamisti arruolano vari minorenni. La scuola è sotto attacco, perché ostacola la diffusione dell’integralismo. La tattica unisce il terrorismo in tutto il mondo, dall’aggressione alla pachistana Malala Yousafzai nel 2012 fino all’università keniana di Garissa.
Secondo gli islamisti di Boko Haram l’istruzione è un’aberrazione occidentale diffusa nel più “ricco” sud del Paese. Il loro nome deriva dalla storpiatura dell’inglese “book” e in lingua hausa significa “i libri sono proibiti”.
Per l’Unicef, dal 2012 al 2014, nel nord-est della Nigeria i ribelli islamisti hanno distrutto più di 300 scuole, uccidendo almeno 196 insegnanti e 314 bambini. I cristiani sono i più odiati, ma si arriva a colpire tutti gli studenti, anche chi frequenta una scuola coranica come la piccola Sani.
Purtroppo le conseguenze si vedono.
Secondo le statistiche dell’Unesco, i bambini nigeriani in età da scuola elementare che non ricevono istruzione sono passati dagli 8 milioni del 2007 ai 10 e mezzo di adesso. È la cifra più alta in tutto il mondo. L’Agenzia delle Nazioni Unite per l’Infanzia prova ad intervenire. Nel campo profughi di Dar es Salam, Ahmid è tornato a frequentare la scuola, anche se precaria e allestita tra le tende. Per altri minori sono organizzate attività di supporto psico-sociale.
Marzia Vigliaroni di Coopi, uno dei partner dell’Unicef, coordina quelle di Diffa in Niger: «All’inizio», racconta, «i bambini non parlano e partecipano poco; disegnano gole tagliate e persone affogate nell’acqua.
Questo ci mostra quanto siano traumatizzati e ci permette di fare un lavoro individuale, aiutandoli a superare i drammi subiti sulla loro pelle».
Eppure si potrebbe fare molto di più.
I fondi ricevuti – denuncia l’Unicef – sono pochi, solo il 15% dei 24,5 milioni di dollari richiesti per la Nigeria, il 17% per i progetti in Camerun, il 2% in Niger e l'1% in Ciad.
Stefano Pasta