Continuamente rapporti e fatti di cronaca parlano di un sistema carcere che sembra aver gettato la spugna sulla possibilità di trattare i detenuti con dignità. Continua a considerare la chiave il simbolo della sicurezza,
ma più sono le mandate, più sale la recidiva. Un carcere “chiuso”, con pochi progetti di recupero sociale, diventa patogeno e criminogeno:
anziché rieducare, produce un tasso di recidiva del 70%.
Tra le ultime notizie, il 6 aprile, Constantin Niculau, 60 anni, detenuto al Due Palazzi di Padova, è stato
ricoverato in ospedale perché vittima di un violento pestaggio avvenuto dietro le sbarre.
Poche settimane prima, la
Società italiana di medicina penitenziaria ha diffuso un rapporto secondo il quale le nostre prigioni sono dei veri e propri lazzaretti: il 60-80% dei detenuti ha qualche malattia. I tossicodipendenti sono il 32%, il 27% ha un problema psichiatrico, il 17% ha malattie osteoarticolari, il 16% cardiovascolari e circa il 10% problemi metabolici e dermatologici.
Tra le malattie infettive, è l’epatite C la più frequente (32,8%), seguita da Tbc (21,8%), Epatite B (5,3%), Hiv (3,8%) e sifilide (2,3%).
E
il 28 maggio scadrà il tempo che la Corte europea ha dato all’Italia per porre fine al sovraffollamento carcerario (meno di 3 metri quadrati di spazio vitale per persona): se non porrà rimedio, il nostro Paese sarà condannato a pagare un risarcimento di 20 euro a giorno per ogni detenuto.
Su questi temi si è soffermata la mostra collettiva “Dentro” (di cui, per gentile concessione degli autori pubblichiamo le foto della gallery), che è stata
presentata alla Wavegallery Corsini di Brescia.
Renato Corsini, Gianni Berengo Gardin, Mauro D’Agati, Davide Ferrario, Rosi Giua e Uliano Lucas: sei fotografi e sei parallele ricerche fotografiche
indagano la vita all’interno delle case circondariali di Canton Mombello (Brescia), San Vittore e Bollate (Milano), Pagliarelli (Palermo) e Buon Cammino (Cagliari), ma soprattutto, con occhio attento e cuore aperto,
si mettono al servizio dei detenuti, abitanti oltre che prigionieri.
Come spiega il titolo, i fotografi hanno lavorato indagando dal di “dentro” gli istituti di pena. «Il loro approccio», spiegano i curatori della mostra, «è stato quello di entrare fisicamente nelle celle per stabilire con i detenuti un rapporto che doveva necessariamente essere di reciproca fiducia, di unanime comprensione dei problemi e di autentico rispetto per le singole personalità».
Ne è scaturita una mostra ricca di umanità,
lontana dal quel “sbatti il mostro in prima pagina” che l’argomento potrebbe suggerire; una serie di immagini nelle quali traspare l’autenticità di quello che i carcerati vogliono venga visto “fuori”.
Un vero esempio di fotogiornalismo “etico”.
Stefano Pasta