Se esiste una data in cui il mondo ha iniziato davvero a dire addio al nucleare non è quella dell’incidente di Chernobyl, che segnò una prima forte presa di coscienza del problema, ma
quella del disastro nucleare di Fukushima.
Esattamente quattro anni fa, l’11 marzo 2011, in seguito al maremoto e allo tsunami, avvenne la
fusione dei noccioli di tre reattori della centrale giapponese. L’incidente, come Greenpeace valutò per prima, venne classificato dall'Aiea (Agenzia internazionale per l’energia atomica)
al grado 7, il massimo grado della scala, prima raggiunto solo dal disastro di Chernobyl.
Da quel giorno
capimmo che anche un Paese tecnologicamente avanzato come il Giappone non era in grado di reagire adeguatamente a un incidente nucleare.
E
a distanza di quattro anni la situazione è ancora drammatica, con 120 mila persone sfollate e la radioattività che non si riesce a eliminare. Non si sa come ridurre il volume d’acqua di falda che entra nel sito di Fukushima. I tecnici giapponesi pensano di costruire un
muro di ghiaccio lungo un chilometro e mezzo attorno al sito, per ridurre di un terzo la quantità di acqua radioattiva che viene rilasciata nell’oceano.
Il muro dovrebbe resistere sei anni, fino a quando i noccioli dei reattori saranno stati sigillati. Ma funzionerà davvero?
Non solo, dal monitoraggio della radioattività svolto da Greenpeace risulta che
il 59 per cento dei campioni presi in aree ufficialmente “decontaminate” era ancora oltre la soglia, con i livelli più alti rilevati lontano dalle strade. Il lavoro di decontaminazione è servito in sostanza solamente a
“spostare” il problema, ma non a liberarsene.
Il processo di decontaminazione è una storia senza fine perché le colline, le montagne e le foreste della Prefettura di Fukushima sono fortemente contaminate.
Il materiale radioattivo viene quindi dilavato attraverso i corsi d’acqua e raggiunge anche aree precedentemente decontaminate.
Contaminandole nuovamente.
Gabriele Salari