Quest’anno, al Memoriale della Shoah di Milano, si aggiunge un ricordo tratto dal presente, ma profondamente ancorato al passato. E precisamente all’insegnamento di quella scritta grigia, a caratteri cubitali, che accoglie i visitatori all’ingresso dei binari sotterranei da cui partivano i treni per i lager: «INDIFFERENZA». Quella dei tanti milanesi che, pur conoscendone la meta, non si opposero ai convogli della morte nazifascisti.
Nello stesso luogo, da giugno a novembre scorso, è andata in scena una “rivincita della storia”: la Comunità di Sant’Egidio e la Fondazione Memoriale della Shoah hanno accolto 5 mila profughi (ragazzini eritrei soli, famiglie siriane e irachene, adolescenti afghani), offrendo un rifugio per qualche notte nel loro viaggio verso il Nord Europa. Gratuitamente, senza alcun costo per le istituzioni, grazie agli aiuti e al coinvolgimento di tanti. Chi ha portato pannolini e frutta, chi ha regalato il proprio tempo, oppure ha offerto il telefono per chiamare a casa i familiari.
Tra i volontari, più di un centinaio di studenti delle superiori milanesi, molti del liceo artistico Caravaggio. D’estate un’insegnante inizia ad andare al Memoriale per dare una mano. Torna a scuola e racconta di due ragazze eritree di 15 anni, in viaggio da quattro mesi, con storie terribili, soprattutto in Libia, ma anche di una «serata di amicizia», seduti su una brandina a mangiare pollo e patate. Cinque studenti e un collega sono stati i primi ad accompagnarla una sera. Poi il passaparola è diventato uno tsunami: decine di professori, vicepreside compresa, e tantissimi alunni hanno iniziato a venire al Memoriale, tutta la scuola si è mobilitata per raccogliere biscotti, frutta e pannolini, la Comunità di Sant’Egidio è stata invitata in più assemblee.
I “profughi” visti al telegiornale, avvolti in tele dorate luccicanti appena sbarcati, assumono il volto di Ibrahim, sedicenne eritreo in fuga dalla dittatura e dal servizio militare a vita, i racconti di Nizar, siriano che ha abbandonato l’università a causa della guerra. E le vesciche ai piedi degli afghani che hanno camminato sulla rotta balcanica e passano da Milano per andare in Francia.
Dopo le sere al Memoriale, al mattino a scuola si continua a riflettere su quel che si è vissuto. «Si tratta», dice la professoressa Monica Sgrò, «di un percorso profondamente didattico, che si è nutrito dell’incontro personale con i profughi e della competenza di realtà come Sant’Egidio. Ai ragazzi abbiamo chiesto di interrogarsi in prima persona e poi di comunicare agli altri, in una riflessione che passa dall’individuo alla collettività. È un compito della scuola: insegnare ai ragazzi ad essere partecipi dell’attualità, a non fare parte della “zona grigia” dell’indifferenza che – lo mostra la storia – genera mostruosità».
In un liceo artistico la strada dell’arte è quasi obbligata: i ragazzi hanno realizzato una quarantina di percorsi creativi (sculture, quadri, opere multimediali, testi), che, dalla settimana della Giornata della Memoria fino al termine di febbraio, sono esposti proprio al Memoriale della Shoah, nel luogo in cui è stata vissuta l’esperienza di solidarietà e amicizia con i profughi. Il titolo della mostra, promossa da Sant’Egidio insieme a vari insegnanti del Caravaggio (De Biase, Gerosa, Magnaghi, Pezzimento, Strada, Ritondale, Graziano), è la citazione di Erri De Luca “Atleti della speranza”. «Quest’esposizione», spiega la professoressa Sgrò, «è come un abbraccio che continua: l’abbraccio iniziato con le ore dedicate all’accoglienza e che prosegue nel pensiero poetico che ha generato».
“La caduta del muro” è la scultura di Andrea Azeni, quarta superiore, che spiega: «È dedicata ai profughi che ci hanno raccontato le loro storie mentre distribuivamo la cena; io in particolare ho incontrato famiglie siriane con bambini piccoli». La sua compagna di classe Luna Alessi ha rappresentato «un abbraccio di protezione» in creta colorata: «Si intitola “Salvami”: è una sfera lucida che si fa in quattro, accettando anche di essere graffiata e di perdere colore, pur di proteggere un altro elemento».
Anche Simone Pasculli, indirizzo figurativo, ha modellato la creta: sei piedi in tutto, suddivisi in coppie in ordine di grandezza, disposti su due lingue di terra separate da uno spazio che simboleggia il mare. «È la storia di una famiglia, il viaggio percorso dalla propria terra a quella nuova, per poi girarsi indietro e guardare tutta la strada percorsa». Gaia Russo ha dipinto una Madonna con il bambino, su fondo oro, che rappresenta una donna sbarcata in Italia: «Ho voluto creare una metafora tra uno dei più importanti simboli religiosi e una donna come tante altre che ha dovuto affrontare un viaggio lungo e pieno di pericoli per dare una prospettiva di vita migliore a suo figlio». Il titolo è “Colei che porta luce”: «Mi sono ispirata», dice la ragazza, «al protettore dei viaggiatori, San Cristoforo, che letteralmente significa “Colui che porta Cristo”. Lei invece porta in viaggio una nuova vita, una luce». C’è un dettaglio che mostra la profonda riflessione contenuta nelle opere dei ragazzi: lo sfondo dorato, che evoca le icone religiose, è stato realizzato con una coperta di alluminio del primo soccorso, quella con cui i profughi vengono riscaldati appena sbarcati.
Stefano Pasta