Quella siriana è la più grave crisi umanitaria degli ultimi 20 anni. Lo dice l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, prevedendo un ulteriore peggioramento per quest’anno, il quinto di guerra. Le cifre:
oltre 4 milioni di rifugiati fuori dalla Siria, 7,6 milioni di sfollati all’interno del Paese, almeno 230 mila morti.
E i numeri dell’accoglienza:
la Turchia ospita 1,8 milioni profughi, il piccolo Libano 1,17 milioni (ha 4,6 milioni di abitanti), la Giordania 630 mila, l’Iraq 250 mila, l’Egitto 132 mila.
E l’Europa? Nel 2014 tutti i siriani arrivati
in Italia sono stati 42 mila, 150 mila nell’intero continente (su 507 milioni di abitanti), 270 mila sono i siriani che hanno chiesto asilo politico in Europa in questi anni di conflitto, mentre negli ultimi Consigli europei si è litigato per accogliere “ben” 35 mila tra siriani e eritrei divisi in due anni e tra 28 Stati.
Nella sola città di Istanbul i siriani ospitati sono 350 mila.
I numeri sono fondamentali per capire le vere proporzioni dell’accoglienza.
Eppure i profughi sono soprattutto storie e volti, come quelli che vediamo nelle foto di
Francesco Fantini scattate in Giordania e Libano.
In Siria le loro abitazioni sono state saccheggiate, bruciate e bombardate, ora vivono in condizioni misere in campi ufficiali o informali, tende e baracche, oppure pagano affitti esagerati per appartamenti di bassa qualità, scantinati o garage. Abd el Rahman, 50 anni, dice: «Durante un’incursione dell’esercito hanno bruciato il mio negozio e la mia casa. In quel momento sono fuggito in Giordania:
o muori o scappi via».
Passata la frontiera i soldi finiscono presto, si lavora solo in nero oppure si dipende dagli aiuti delle associazioni umanitarie; alla lunga può essere una causa di depressione, soprattutto per i capofamiglia.
La metà dei rifugiati sono bambini, che hanno visto con i propri occhi o sentito raccontare la violenza della guerra: parenti stretti rapiti, picchiati, arrestati o uccisi.
Fatuma, 9 anni di Homs, racconta: «Una volta hanno sparato un colpo d’artiglieria molto potente; papà e i vicini erano in piedi all’esterno, la bomba è caduta nel mezzo del quartiere, tutto l’edificio ha tremato e la polvere è caduta sopra di noi, perché eravamo al piano terra sotto le scale... Mi sono tappata le orecchie, non volevo sentire. Ho pianto».
La salute è un altro grande problema, soprattutto in Libano dove il sistema sanitario è particolarmente caro. Molti feriti sono stati curati in maniera improvvisata e insufficiente, in diversi hanno subito danni alla colonna vertebrale rimanendo paralizzati.
Nonostante tutto, ci sono i sogni sul futuro. Quasi tutti i rifugiati sperano di tornare a casa il prima possibile. Una parte consistente critica il regime siriano e spera nella sua caduta, altri temono di più i gruppi ribelli armati, altri ancora hanno un’opinione neutrale: criticano l’uso della forza da parte del regime, ma rimpiangono la vita stabile e normale che hanno perduto.
In ogni caso tutti desiderano il ritorno della pace e della stabilità per poter ritrovare la famiglia, riprendere il lavoro o gli studi e ricostruire la casa.
Gli scatti di Francesco Fantini fanno parte di “Rifugiati nel racconto. Storie di profughi siriani in Giordania e in Libano”, una mostra che sta girando l’Europa per «risvegliare le coscienze».
È uno dei progetti di “Focus on Syria” (
www.focusonsyria.org), realtà che coinvolge giornalisti, fotografi e operatori di Ong per documentare l’impatto umanitario della guerra in Siria.
Le foto della mostra sono state realizzate nel gennaio 2013.
Da allora la situazione è peggiorata. Alla metà di luglio l’Unicef ha lanciato un allarme perché le scorte di acqua sicura in esaurimento, durante i torridi mesi estivi, espongono i bambini al rischio di malattie.
Dall’inizio dell’anno sono più di 100 mila i casi di diarrea acuta registrati all’interno della Siria. Poi picchi di epatite A, di tifo (oltre mille casi a Deir-Ez-Zour, dove l’Eufrate è stato contaminato), mentre la crescita del carburante nell’ovest della Siria (500 pound, 2,5 dollari al litro) rende più difficile l’approvvigionamento.
Stefano Pasta