Una casa e una scuola per i bambini di Kimpoko
Kimpoko, Kinshasa
Un piccolo fiume, insenature coperte da fronde, piccole costruzioni per ripararsi dal sole, ma oggi non serve, è una giornata uggiosa. Mi aggiro, fotografo maiali magri e malmessi, li sento gridare, hanno fame.
Una delle ragazze della Comunità “Amore e Libertà” mi racconta la sua storia, abbandonata da piccola da sua madre che l’ha “affidata” a un centro di loschi venditori di bambini e dei loro organi. Aveva la scabbia ed è stata scartata in quanto “merce scaduta”. Magari ricorda male, difficile credere che una madre arrivi a tanto anche nella più nera delle disperazioni; eppure la ragazza prova pietà per la donna. Pietà: un sentimento che ora non so più decifrare. “Pietà, Signore pietà”, si dice più e più volte durante la messa, ma allora è Dio che deve avere pietà di noi o siamo noi a dover imparare la pietà verso i nostri simili?
Trasformare la rabbia in pietà, che non è dispiacere o pena, è un sentimento più complesso che forse può infondere serenità.
Resta che una ragazza che ora ha 23 anni ha dovuto accettare una madre che l’ha abbandonata a un destino che poteva essere disumano. Esistono migliaia di storie simili qui in Congo e ovunque nel nostro mondo, aberrazioni, violenza e nessuna pietà.
La ragazza vuole studiare psicologia, aiutare chi come lei ha subito abusi, violenze, indifferenza.
Stasera il vento è lieve, un’altra giovane è appena tornata dall’Università, studia legge, da bambina non sapeva nuotare e quando la seconda moglie di suo padre l’ha abbandonata sulle rive di un fiume era inerme e terrorizzata, poi un’anima buona l’ha portata qui nella Comunità. I suoi capelli sono rossi, si veste di mille colori e sorride.
Alessandra e Silvia sono le giovani consacrate che si prendono cura dei più di 30 fra bambini e ragazzi che abitano la Comunità Amore e Libertà, sono le loro mamme, così le chiamano e così loro si sentono: accudire, ascoltare, nutrire il corpo e l’anima di queste creature che giravano il loro mondo al buio, senza amore, senza nulla che somigliasse alla vita che noi conosciamo.
Ho immaginato che si fossero entrambe chiuse fra queste mura per trovare rifugio dalla nostra società alla ricerca di spiritualità, pace e pietà. Mi sbagliavo, hanno avuto, invece, la forza di creare un piccolo mondo più buono, più accogliente, un luogo dove, anche quando vengono a mancare acqua e corrente elettrica - succede spesso - si può guardare lontano, al di là del cancello che li ripara dalla brutalità della periferia di Kinshasa.
Sono due giovani donne coraggiose, crescono i figli e poi li lasciano liberi di scegliere dove andare e cosa studiare, sono quindi loro due a essere “abbandonate” da questi figli che una volta forgiati e amati sono liberi di ricominciare a camminare per il loro mondo, che non sarà mai più buio.
Amore e libertà. Capisco perché questa Comunità si chiami così. Don Matteo, il fondatore, si fa chiamare babbo, dice messa tutti i giorni e gioca con i suoi figli, farebbe di tutto per loro. Una famiglia allargata, i pasti consumati a casa tutti insieme, le vite degli adolescenti con i loro sani turbamenti e il pianto dei bambini che, a volte, hanno ancora paura del buio dell’abbandono.
Don Matteo visita spesso il quartiere, porta conforto a fedeli infermi e ascolta i loro bisogni, un uomo gli chiede aiuto per procurarsi pochi dollari per costruire un tetto alla sua casa, un angusto spazio di mattoni dove vivono in sei.
Sono luoghi di povertà, polvere e bucato steso sul filo spinato, bacinelle di acqua sporca e ciabatte di plastica rotte, gente prigioniera dell’assenza di ogni bene, tranne che di una fede incrollabile, nonostante tutto.
La domenica, nella grande chiesa della Comunità, arrivano decine e decine di persone, bambini, adulti e anziani che indossano il vestito buono. Per un momento li immagino passeggiare dopo la funzione con un pacchetto di carta dorata per le “pastarelle” alla crema del pranzo domenicale, come in Italia. Qui, però, non sarà così. Il vestito buono, i canti intonati ad arte infondono gioia, sono le 6.30 del mattino, in Africa la vita scorre seguendo il sole, soprattutto quando, al suo sorgere, non scotta.
A casa un ragazzo alto e magro, con un viso di una dolcezza infinita, mi chiede di fargli ascoltare una canzone, una bimba di 8 anni mi domanda di poter scattare delle foto, un’altra mi abbraccia, così, senza motivo, ma deve esistere un motivo per abbracciarsi?
Per la mia ultima sera siamo andati, con i più grandi, a cena fuori al Marchè. Luci colorate, tavolini sistemati alla meglio e maxischermi con l’immancabile partita. Si mangia con le mani, pollo e capra cotti sulla brace in un trionfo di cipolla. Dietro di noi gente in piedi guarda i maxischermi e tifa, qui il calcio è una passione e una speranza per i ragazzi che giocano in calzini bucati sognando Balotelli. Le ragazze sono vestite, truccate e profumate, scattano foto con i cellulari.
Il mattino seguente, ho fatto colazione con un’altra delle ragazze. Suo padre per liberarsi di lei dopo la morte della madre l’aveva etichettata pubblicamente come strega, in Africa possono darti fuoco per questo, anche se sei una bambina.
Ora studia pedagogia, il suo fidanzato è un giovane bello come il sole che studia informatica.
Vorrei tornare presto, trascorrere altro tempo con i ragazzi, chiacchierare con Silvia e Alessandra alla luce della luna prima di andare a letto quando il generatore si spegne per risparmiare energia.
Vorrei bearmi ancora dei sorrisi dei bambini a ricreazione nella grande scuola della Comunità.
Vorrei vedere come si evolvono i lavori e se grazie ai volontari i maiali di Kimpoko saranno ingrassati.


































