Vajont 51 anni dopo: sulla diga della vergogna

Longarone (Belluno).   “Oggi sappiamo bene che il Vajont è stata una tragedia costruita dall’uomo. Volevano  far partire questa diga  enorme perché avrebbe fatto funzionare a pieno regime tutte le centrali fino giù a valle. Ma soprattutto bisognava far presto perché il parlamento stava per approvare la legge della nazionalizzazione dell’energia elettrica e i privati che avevano impianti idrici potevano venderli bene allo Stato, solo se collaudati e messi a regime. Così si nascose vergognosamente la verità  sul pericolo che la diga avrebbe rappresentato, anzi sulla certezza di quanto sarebbe poi accaduto”.  Sono parole pesanti come una frana quelle che Italo Filippin, ertano, settantenne sopravvissuto alla tragedia, usa per  spiegare ai visitatori cos’è accaduto veramente quel 9 ottobre 1963.  
 
 Oggi è una delle guide volontarie della Pro Loco di Erto per accompagnano tutte le domeniche i visitatori sui luoghi del disastro. Anzi è molto più di una guida, è la memoria storica del più grande disastro ambientale causato dall’uomo che l’Italia ricordi, e allo stesso tempo il più prevedibile. Una strage che la “Giornata nazionale in Memoria delle vittime dei disastri ambientali e industriali”, istituita tre anni fa il 9 ottobre, tardivamente riconosce e  pone a monito per il futuro.    
 
   Cinquantun anni fa Filippin, che è stato il primo sindaco di Erto dopo il disastro, ne aveva solo 19. “Ci fu chiaro  cosa fosse accaduto solo alle prime luci dell’alba”. La sera del 9 ottobre 1963 una massa franosa lunga due chilometri e mezzo, di circa 270 milioni di metri cubi di roccia, precipitò alla velocità di 90 km orari nel lago formato dalla diga del Vajont, costruita tre anni prima dalla Sade. Un intero versante del monte Toc, la cui sinistra onomatopea doveva pur dire qualcosa ad ingegneri e progettisti, franò nel bacino idrico. Per capire: come se 675 navi della stazza della “Costa Concordia” fossero cadute contemporaneamente nell’invaso. La frana causò un’onda alta centinaia di metri che, scavalcando la diga, travolse il paese di Longarone, cancellandolo dalla carta geografica assieme ad altri 12 villaggi. Vi perirono 1917 persone. Il processo penale, per quello che lo scrittore Mauro Corona  definì “l’omicidio plurimo premeditato”, finì nel 1971 con due sole condanne e moltissime assoluzioni. Il processo civile si concluse solo nel 1997. 

    “Oggi quanto accadde è ancora ben visibile”,  racconta Filippin: “La massa franosa che occupa l’invaso  è ancora tutta lì, cimitero di corpi e di case. Vi è cresciuto col tempo un bosco che è in parte quello stesso “bosco vecchio” scivolato nel lago, con i pini che si sono raddrizzati e ricresciuti”. Ci sono  interi tratti delle massicciate delle vecchie strade. C’è soprattutto la cicatrice sul monte Toc che disegna ancora perfettamente il fronte della frana con la sagoma di una enorme “M”.
   Nelle immagini della gallery, assieme alle istantanee del 1963, si illustra quanto si vede oggi sopra la “diga della vergogna”.