A molti siriani non resta che morire o fuggire. E cioè spesso morire comunque, come gli affogati nell’Egeo o come Faris, il neonato di 36 giorni ucciso dal freddo il 29 gennaio in una tenda di nylon nei pressi della capitale turca Ankara. La maggior parte dei profughi, però, non scappa in Europa, ma nei Paesi confinanti con la Siria. Solo il 3,6% ha chiesto asilo nel Vecchio Continente, mentre il 96,4% è rimasto in Medio Oriente: quasi 2 milioni in Turchia, 630 mila in Giordania e 1,2 milioni in Libano, che, con 4 milioni e mezzo di abitanti e un territorio grande quanto l’Abruzzo, è il Paese con il più alto numero di rifugiati pro-capite al mondo.
Il confitto siriano, che sta per iniziare il suo sesto anno, sarà studiato sui libri di storia anche per aver contribuito a cambiare la geografia del Medio Oriente. In Giordania, ad esempio, il quarto agglomerato per abitanti non è una città ma un campo profughi delle Nazioni Unite, quello diZa’atari, allestito nel 2012 su un terreno brullo e polveroso, senza neanche l’ombra di un albero o un prato. Oggi ospita 90 mila rifugiati in tende o caravan, al mondo è più piccolo solo del campo di Dadaab nel deserto del nord-est del Kenya.
Qui i registi spagnoli Pablo Iraburu, Jorge Fernandez Mayoral e Pablo Tosco hanno realizzato il documentario “District Zero” per Oxfam e per la Direzione per gli Aiuti Umanitari della Commissione Europea (Echo); le immagini sono girate nel marzo 2015 e a breve sarà disponibile in italiano con la voce dell’ambasciatrice Oxfam Margherita Buy.
Le telecamere provano a raccontare la condizione di profughi dalle sim dei cellulari, seguendo il personaggio principale, Maamun al-Wadi.Fuggito dalla Siria, apre una nuova attività all’interno di Za’atari, un piccolo negozio dove ricarica batterie, ripara telefonini, stampa le fotografie che contengono, e ripristina gli unici collegamenti che gli abitanti del campo hanno ancora con la Siria.“Che cosa si nasconde all’interno di uno smartphone di un rifugiato?”, è il sottotitolo che allude all’interessante prospettiva del documentario.
Dalle sim emerge la vita in Siria, lasciata poche settimane prima, o in altri casi ormai da anni. Felicità, routine, vita familiare, ma anche guerra, distruzione, conflitti e terrore.
«Immagina che tuo figlio chieda dell’acqua e tu non abbia da dargliene», dice un rifugiato davanti allo schermo del computer che mostra la casa bombardata. Commentano i registi: «Sono passati anni da quando abbiamo iniziato a ragionare sul tema dei rifugiati. Abbiamo viaggiato per visitare i loro mondi: un mondo di caos, sradicamento e disperazione. Una sorta di non-mondo,talvolta invisibile ma potente, terribile e in crescita». E infatti, in tutto il pianeta, i rifugiati hanno raggiunto i 59,5 milioni, una cifra mai così alta dalla fine della Seconda guerra mondiale.
Il titolo “District Zero” allude alle vite dei profughi ferme a un “punto zero” a causa di una guerra di cui non si intravede la fine. Più della metà degli abitanti di Za’atari sono bambini, il reparto maternità dell’ospedale gestisce dagli otto ai dieci parti al giorno, di neonati che rischiano di non essere registrati all’anagrafe e quindi di avere meno diritti in futuro.
Intanto, secondo l’Unhcr, un terzo dei bambini del campo non va a scuola e i giovani che frequentavano l’università in Siria hanno dovuto abbandonare gli studi; inoltre, Amnesty International ha denunciato diversi casi di violenza sessuale avvenuti all’interno. Particolarmente grave è poi la situazione dei palestinesi che, a seguito della guerra in Israele del 1948, abitavano nei campi in Siria, come quello di Yarmouk, a 18 chilometri a sud di Damasco, conteso dal 2012 tra governativi, opposizioni appoggiate dall’Occidente, islamisti di Al-Nusra e miliziani dell’Isis. Tra chi è rimasto a Yarmouk ci sono stati morti di fame e di tifo anche lo scorso dicembre; chi è scappato, come molti rifugiati di Za’atari, si ritrova profugo per la seconda volta, spesso con problemi legati ai documenti.
Infine, le telecamere di “District Zero” mostrano un altro aspetto della vita sospesa tra tende e caravan del campo: la mancanza di opportunità lavorative diventa insostenibile e frustrante. I rifugiati più vulnerabili vengono aiutati da Echo e Oxfam attraverso un programma di sussidi, altri ricevono un piccolo stipendio in cambio dell’aiuto che danno a Oxfam per implementare i progetti di aiuto umanitario all’interno del campo.
Molti sognano di poter tornare in patria: «A Homs avevo una gioielleria», dice Ayman, «ma ora è distrutta dalle bombe. Non so come farò a ricominciare. In qualche modo farò, ma senza la pace tutto è impossibile».
Stefano Pasta