“Credevo
fosse diverso el sueño
americano”, “Non avrei mai potuto immaginare che fosse
così”, “Non avevo mai pensato a cosa significasse essere una
persona illegale”. Sono le frasi, accompagnate dalle lacrime, che
raccontano il sogno americano, l’American dream in salsa
latinoamericana.
Nel 2010, l’immigrazione dall’America Centrale
verso gli Usa è stata la più numerosa del mondo e ogni anno
l’Istituto di immigrazione messicano arresta circa 250.000 migranti
senza documenti.
Molti altri non arrivano alla frontiera, muoiono
durante il cammino, in sentieri sperduti. “Dove sono?”, è la
domanda che lascia senza risposta le loro famiglie, che non sapranno
mai quello che è accaduto.
È di
questa “ruta” che parla il documentario “María en
tierra de nadie” (“Maria in terra di nessuno”), della
regista salvadoregna Marcela Zamora Chamorra. Per un anno, insieme a
un giornalista e tre fotografi, ha percorso “il cammino” con i
migranti “indocumentados”, senza documenti.
Il progetto
annunciava nel suo stesso titolo la metodologia di lavoro: “Nel
cammino”. Da El Salvador al confine tra Usa e Messico, da un fiume
a un altro, dal Rio Suchiate nel Sud al Rio Bravo nel Nord. Dai
bordelli della tratta attorno a Tapachula alle sabbie del deserto di
Sonora. Hanno viaggiato come clandestini sui treni, dormendo nei
rifugi per migranti spesso gestiti da religiosi, hanno vissuto la
paura degli Zetas (noto gruppo di narcotrafficanti messicani), ormai
i soli padroni del territorio, hanno percorso i sentieri lastricati
di violenze, assalti e omicidi che giorno dopo giorno sono
attraversati da centinaia di centroamericani e anche da qualche
migrante dall’Africa e dall’Asia.
Hanno ascoltato le denunce di
preti coraggiosi, come padre Alejandro Solalinde, sulla complicità
di polizia e funzionari municipali nei sequestri – ben 11.333 nel
solo 2010, con un giro di affari di almeno tre milioni di dollari –
per far telefonare a casa ai parenti chiedendo un riscatto tra i
1.500 e i 5.000 dollari.
Quest’immigrazione
è raccontata dalla regista soprattutto con uno sguardo femminile,
attraverso storie di donne. Come Marta e Sandra, due amiche
salvadoregne che, stanche di vivere in condizioni di violenza e
povertà nel loro Paese, decidono di mettersi in cammino versi gli
Usa con 30 dollari in tasca. “Mio figlio maggiore ha 19 anni, ha
l’idea fissa che devo aiutarlo a studiare scienze politiche
all’università”, dice Marta.
O come Inés, una madre
salvadoregna di 60 anni, la cui figlia è partita perché non
riusciva a vivere “con una tortillas al giorno”. Ma poi non ha
più dato notizie: “Ora vendo dolcetti, lo faccio per guadagnare
soldi per cercare mia figlia. Era piccolina, con la faccia paffuta.
Io le dicevo di non andare perché una casetta ce l’avevamo. Però,
come sai, la casa non è l’unica cosa di cui uno ha bisogno. Lei
aveva due bambine ed è partita anche per aiutare me. Ed è per
questo che prego il Signore di ritrovarla”. A cinque anni dalla
scomparsa, Inés riesce a partire con altre trenta madri per cercare
i figli e sensibilizzare sul tema di questi desaparecidos.
Sono donne anche le Patronas, le protagoniste di un bella
storia di solidarietà nel Sud del Messico. Ogni giorno da
quindici anni, autofinanziandosi, preparano delle porzioni di
fagioli, che lanciano ai migranti, quando la Bestia, il treno
merci su cui viaggiano gli indocumentatos, passa vicino al loro
villaggio.
Cosa unisce le donne lungo la “ruta”? Spesso le lacrime.
Marilù, partita da casa di nascosto lasciando una lettera alla madre
e ai due figli (“Sappi, mammina, che ti voglio bene”), spiega:
“Per la maggior parte del tempo le donne piangono. Si chiedono
perché sono partite e spesso dicono: siamo state stupide, abbiamo
lasciato tutto per cercare un futuro migliore e ora stiamo soffrendo
più di prima”.
Piange Marta quando telefona a casa alla figlia di
sei anni, le dice “Sii obbediente, impara le preghiere per fare la
Prima comunione”, ma poi si accorge che dall’altro capo del filo
la bambina è scoppiata in lacrime. Piange quando intona la canzone
preferita dalla figlia: “Dormi bambina mia, aruru ruru. Se non
dormi, ti mangia il coyote”.
Mentre racconta di aver provato a
suicidarsi inghiottendo dei farmaci, piange anche Jazmin,
nicaraguense, venduta dalla compagna di viaggio per 500 pesos al
bordello “El Bambi”, dove vive con la figlia di sei anni e dice:
“Non ho mai avuto pace”.
E la commozione segna anche i racconti
delle donne vittime di stupri (secondo l’associazione Sin
Fronteras, il 60% delle donne migranti ha subito violenza sessuale),
estorsioni e sequestri.
Come Irma, partita con il sogno di pagare
un’operazione medica al padre e di non far mancare alle sue sorelle
quello che era mancato a lei. Della sua prigionia ricorda gli abusi
sessuali e “un macellaio” che squartava i migranti per cui le
famiglie non pagavano il riscatto: “Puzzava di benzina, perché li
mettono nei barili e li bruciano”.
Ma soprattutto piangono in
silenzio le madri come Inés quando visitano i cimiteri con le croci
di ignoti, quando attaccano cartelli con le foto dei figli sui muri
scalcinati delle città guatemalteche e messicane, o intonano un
canto di suffragio facendo scivolare dei cestini con candele e fiori
sulle acque dei fiumi che potrebbero aver accolto i corpi dei figli.
O quando, arrivati davanti a una fossa comune a Huixtla, sentono il
becchino che racconta di una ragazza di 23 anni, dello stesso Paese
dei loro figli, violentata, strangolata e fatta ritrovare con della
terra e la camicetta in bocca. Seppellita insieme ai due gemelli che
portava in grembo.
Nella foto di copertina: un particolare della locandina del film documentario di Marcela Zamora Chamorro "Maria nella terra di nessuno".