I dati alla base dell’intervista doppia sono noti da tempo: per esempio si trovano nell’indagine promossa dalla Commissione Diritti Umani del Senato nel 2011.
Da un lato, c’è la situazione minoritaria (un rom su cinque) di chi vive in condizioni di disagio abitativo, che siano baracche, container, centri di accoglienza o edifici fatiscenti occupati. Qui il problema sono le condizioni drammatiche delle baraccopoli: a Milano, Alina, 8 anni, chiede una cartella nuova per settembre perché la sua è stata mangiata dai topi. E quelle dei campi nomadi, che non c’entrano nulla con la cultura rom ma sono ghetti monoetnici, con tutti i problemi sociali del ghetto.
«Enclave di segregazione», dice l’Onu per criticare questi luoghi del disagio con il timbro delle autorità. Spesso in questi posti si parla di microcriminalità: la storia delle periferie italiane insegna che integrazione, scuola (il 60% dei rom è minorenne), lavoro, casa sono l’unico modo per ridurla. Negli anni ‘50 e ‘60, quando a Roma c’erano le borgate raccontate da Pasolini, quasi tutti gli ospiti dell’allora carcere minorile venivano da lì. Il problema delle baracche si risolse con una visione sulla città: un grande piano di case popolari per i poveri.
Dall’altro, però, la condizione maggioritaria dei rom e sinti è un’altra. Quattro su cinque abitano in casa, lavorano, studiano e faticano come tutti.
Come Fiorello Lebbiati – detto Miguel, dalla passione della mamma per Miguel Bosé – nato nel 1982 a Fucecchio, il paese di Montanelli. Vive a Lucca, dove coordina un progetto Caritas sul recupero del cibo avanzato e fa l’educatore in una scuola media in laboratori di falegnameria. Durante il fascismo, suo nonno materno, intagliatore di rame, fu rinchiuso nei campi italiani di concentramento per “zingari” italiani (Prignano, Tossiccia, Boiano, Gonars e altri, tutti dimenticati).
O come Concetta Sarachella, 32 anni, che vive a Isernia ma dalla città molisana prende spesso treni per tutta Italia perché è una promessa della moda Made in Italy. Nel 2012 un suo abito – verde, bianco, rosso – è stato scelto da Giorgio Napolitano per essere esposto al Vittoriano per la chiusura del 150° anniversario dell’Unità nazionale. Alla domanda se lei viva in casa, la stilista è quasi sorpresa: «Certo, come tutti i rom della mia Regione». Cittadinanza? Italiani da secoli: la famiglia della madre di Frosinone, quella del padre in Molise da generazioni.
Il video di Er Piotta e Elio Germano ci aiuta a capire che, a furia di ripeterla, l’immagine stereotipata, che vede solo una parte (minoritaria) del problema, diventa vera, ingabbiandoci in una serie di barriere mentali. Ma la vulgata è, appunto, una vulgata. Talvolta addirittura una “bufala”, come quella secondo cui i rom rubano i bambini: una ricerca dell’Università di Verona e della Fondazione Migrantes ha analizzato scientificamente tutti i casi di rom indicati come responsabili di sparizioni di bambini dal 1986 al 2007, dimostrando che nessuna accusa si è si è poi rivelata fondata.
Diceva Bernard Shaw: «L’Americano bianco relega il negro al rango di lustrascarpe: e ne conclude che è capace solo di lustrare scarpe». In Italia lo stesso ragionamento è stato applicato con il termine “nomade”. Tempo fa, gruppi di rom e sinti si spostavano perché praticavano vecchi mestieri come il commercio di cavalli e la riparazione di pentole di rame. Ma le cose cambiano e le pentole non si riparano più. Da decenni il nomadismo non è più praticato, in Italia soltanto dal 3%, ovvero le famiglie circensi come i Togni e gli Orfei.
Se non sono nomadi, perché vengono sempre etichettati come nomadi? Una delle ragioni dell’odio nei confronti di rom e sinti è la loro presunta non integrabilità. Il nomadismo calza bene con questo concetto: non sono legati al territorio, quindi sono asociali. “Asociali” li chiamavano anche i nazifascisti che giustificarono il loro internamento e sterminio dicendo che nel sangue avevano il gene del Wandertrieb, “l’istinto al nomadismo”.
Ma decenni di vulgate stereotipate e semplificatorie producono politiche sbagliate. Come quella dei campi per famiglie nomadi che non sono più nomadi da generazioni. Nel 2012, come ci chiedeva l’Europa, la Strategia Nazionale voluta dal ministro Andrea Riccardi aveva indicato la strada attorno a quattro assi: scuola, salute, lavoro e casa. Invece di applicarla, molte città italiane hanno proseguito costruendo ghetti monoetnici, sempre più fuori la città.
Il 30 maggio una sentenza del Tribunale ha riconosciuto «il carattere discriminatorio della complessiva condotta di Roma Capitale»; si riferiva ai 30 milioni di euro, messi a disposizione dall’allora ministro Roberto Maroni alla Giunta Alemanno, per costruire il campo della Barbuta.
Eppure le alternative sono possibili, l’Europa mette a disposizione i fondi. Nella sola città di Madrid vivevano 70 mila rom (quasi la metà di quelli in tutta Italia), di cui 12 mila nei campi. Quattro anni fa, il Comune ha deciso di chiudere i campi entro il 2017 e di investire sulla scuola: finora 9 mila persone hanno avuto accesso ad alloggi e a percorsi di integrazione.
Per saperne di più: www.accogliamoci.it.
Stefano Pasta