“EU
013, l’ultima frontiera” di Raffaella Cosentino e Alessio
Genovese, proiettato anche all’ultimo Festival di Rotterdam, è il
primo documentario girato nei Cie, dopo l’autorizzazione data
dall’allora ministro dell’Interno
Cancellieri.
I sessanta
minuti di immagini inedite mostrano il controllo delle frontiere
all’aeroporto di Fiumicino e al porto di Ancona e la vita
quotidiana nei Cie di Roma, Bari e Trapani. Fino allo scoppio di una
rivolta in presa diretta, perché questi centri sono posti dove si
sta male.
Le
telecamere raccontano le vite dei detenuti, chi alle prese con
attacchi di panico, chi depresso e sotto psicofarmaci.
Quasi sempre in italiano. Perché questa
è una storia italiana e la lingua è quello che meglio rappresenta
il grado di integrazione in una società.
La maggior parte sono qui
da anni, come il ragazzo che spiega di aver fatto in Italia asilo e
scuole, di aver lavorato e di aver poi perso il permesso dopo 28 anni
a causa di un reato per cui ancora attende di essere giudicato. Lui è
già stato rimpatriato nel 2009: «Alle
5 di mattina mi fanno incontrare un giudice di pace, alle sette mi
ritrovo all’aeroporto e vengo espatriato in Tunisia, dove non ero
mai stato e non ho parenti. E ora mi dicono: “Perché sei
tornato?”.
Questa è la mia terra, sono cresciuto qua».
Ad altri succede che non vengono riconosciuti dai loro consolati. Se
cercano di uscire dall’Italia e vanno in un altro paese europeo,
vengono rimandati qui per essere riportati in un Cie. Racconta un
ragazzo maghrebino: «Nel
2010, sono stato condannato a 9 mesi di carcere solo per l’articolo
14, clandestino. Uscito dal carcere, sono andato in Svizzera. Sono
tornato qua e mi hanno beccato: ho fatto 11 mesi di Cie. Sono uscito
il giorno di Capodanno. Poco dopo mi hanno fermato vicino a Termini,
adesso sono qui da un mese e dieci giorni. Non lo so come finisce
questa storia».
Ma
Raffaella Cosentino e Alessio Genovese raccontano anche il lavoro dei
poliziotti che presidiano le frontiere Schengen. Come gli agenti di
Fiumicino che frequentano una lezione all’aeroporto di Roma in cui
– si spiega – che «ci
vuole massima professionalità, voi siete lo sbarramento» per la
Fortezza Europa. O come il poliziotto del porto di Ancona che sa
benissimo che «il flusso
migratorio in sé e per sé non si può arrestare, non esiste un
sistema per fermarlo», ma poi si mette i guanti e va a cercare se
nel doppiofondo dei tir o vicino «al
camminatoio del pullman, sotto il tappetino», è nascosto
l’invasore. Ecco, lì va in scena lo spettro dell’invasione,
diventato reale a forza di ripeterlo. Che poi è lo stesso fantasma
dei centri: nel 2012, i rimpatriati
attraverso il costosissimo “Sistema Cie” sono stati l’1% degli
immigrati irregolari presenti in Italia.
Eppure va bene così: non
servono certo a fermare la presunta “invasione”, ma servono a
dimostrarla e a definire il nemico invasore, quella «massa
che altrimenti gira liberamente» di cui parla la formatrice della
polizia a Fiumicino.