Khor Virap, ad appena 45 chilometri dalla capitale Yerevan, è tra i luoghi più santi e più suggestivi di tutta l’Armenia. Il grande miraggio del monte Ararat, bello e dannato, sta proprio lì di fronte. Così vicino così lontano. Così irraggiungibile così incombente. Il monte biblico racconta le storie di Noè e della sua arca. Racconta il volo delle colombe, che il patriarca fece volar via per cercare la terra asciutta. Ma oggi l’Ararat racconta queste storie in una lingua incomprensibile e diversa dalla lingua armena, una lingua non scritta con i sacri caratteri del suo alfabeto, inventato dal santo monaco Mesrop Mashtots.
Khor Virap è la mitica collina delle origini, il monte primordiale da cui è nata, sorgendo dalle acque del paganesimo, tutta l’Armenia cristiana. Il monastero è il simbolo più splendente della sua fede, che è zampillata dal basso di un pozzo profondo. Da una cavità oscura della terra (questo significa khor virap) è sgorgata la sorgente illuminatrice di san Gregorio, padre nella fede della nazione.
La tradizione vuole che questo sia il luogo dove Gregorio L’Illuminatore, annunziatore del vangelo di Cristo proveniente dalla Cappadocia, sia stato imprigionato per 13 anni da Tiridate III, re pagano dell’Armenia, persecutore dei cristiani. Nel IV secolo dopo Cristo la collina era adibita a carcere, dove i condannati, come si usava allora, venivano detenuti in buche scavate nella terra o nella roccia. Il santo, legato mani e piedi, fu scaraventato in un pozzo profondo sei metri, dove sopravvisse grazie alle premure di una vedova cristiana, che gli portava di nascosto ogni giorno una pagnotta di pane fresco. Ma l’uso violento del potere abbruttisce l’uomo, come affermò Giovanni Paolo II in visita al monastero nel settembre del 2001. Il re Tiridate cominciò ad ammalarsi di una oscura malattia, che gli deturpava le sembianze, fino a fargli assumere l’aspetto porcino di un cinghiale. San Gregorio lo guarì e illuminò la sua mente con la parola del Vangelo. Il re si convertì e con lui tutta la nazione. Correva l’anno 301 e l’Armenia diventò la prima nazione cristiana, in anticipo sull'Editto di Costantino.
Non pochi storici danno una lettura meno idealizzata della conversione al cristianesimo di Tiridate. Potrebbe essere stata un’avveduta scelta politica da parte del re, che aveva avvertito la necessità di creare, anche attraverso una fede comune, un’unità nazionale in grado di contrapporsi ai Persiani e ai Romani, due imperi aggressivi che premevano ai confini del suo regno.
La fede cristiana mise radici profonde e crebbe come i grandi alberi delle foreste armene. L’oscuro carcere venne presto lasciato da parte. San Gregorio e Tiridate – secondo quanto narra lo storiografo armeno del V secolo Agatangelo, unica fonte a nostra disposizione – avevano in mente un progetto grandioso. Ispirati da una visione divina, edificarono nel giro di qualche anno un maestoso tempio che fosse segno e celebrazione della nuova identità religiosa del regno armeno: la cattedrale di Etchmiadzin, nella città di Vagharshapat. La cattedrale, dedicata alla Madre di Dio, è anche chiamata “Prima Chiesa", "Chiesa universale" e "Illuminata dalla luce". Etchmiadzin significa anche “la Discesa dell’Unigenito”. L’espressione si rifà direttamente ad una tradizione molto antica. San Gregorio l’Illuminatore ebbe una visione nella quale Gesù discese dal cielo e gli indicò con un martello d’oro il luogo dove edificare la prima chiesa cristiana in terra armena.
Solo trecento anni più tardi, la collina di Khor Virap divenne un centro di culto di San Gregorio. Sul luogo della sua prigionia fu costruita una prima cappella, una specie di edicola per ricordare il luogo del “martirio” del santo. Poi un edificio più grande. Attorno alla metà del 1600 la collina si arricchì di una chiesa dedicata alla Vergine Maria, circondata da una monastero e dal altri edifici. Khor Virap assumeva la fisionomia di un importante convento, abitato da numerosi monaci dediti alla preghiera, alla contemplazione e allo studio dei Libri Sacri. Una cerchia di mura metteva il monastero al riparo da saccheggi e violenze. La collina della buca profonda, per il suo legame con san Gregorio, diventò, per un certo periodo di tempo, la sede dei Katholikoi, i Patriarchi della Chiesa Armena, e residenza di un seminario teologico, dove venivano formati i futuri monaci.
Alla luce del mattino il monastero si illumina come una lampadina gialla. Il sole lo appiccica all’ Ararat come fosse l’indirizzo su una cartolina illustrata. Da lontano è una visione da urlo. Attorno la pianura si stende silenziosa, coltivata a vigne e pascoli. Un venditore di colombe bianche alimenta, a esclusivo uso dei turisti, l’antico rito di liberare in volo le colombe, perché si spera vadano, come nel racconto biblico, a posarsi sul mitico monte. Simbolo di innocenza e di pace, la colomba armena vola dappertutto, eccetto che verso l’Ararat. Non pensa proprio di andarsi a posare su quella cima innevata.
Khor Vitap è un monastero ancora oggi abitato e pregato da un piccolo gruppo di monaci in veste nera e barbe poco curate. Si aggirano tra le celle e le due chiese, immersi nei loro pensieri. Più interessati a un nido di rondini con i piccoli pigolanti, che ai turisti, un po’ storditi e increduli di trovarsi in un bagliore di luce così fuori dal mondo. L’aria è tersa e scricchiola come un cristallo di ghiaccio.
La cappella di San Gregorio l’Illuminatore, con un portale di pietra intarsiata a ricamo, conserva ancora oggi il pozzo in cui il santo fu tenuto prigioniero. Vi si accede con una ripidissima scaletta di metallo, a destra dell’altare. Il passaggio è stretto e soffocante. Scavato apposta per far scendere una persona per volta, con scarpe adatte e senza ingombri addosso. Chi soffre di claustrofobia è meglio che non provi a scendere. E’ sufficiente affacciarsi sul bordo del pozzo per essere presi da vertigini. La cavità termina con una cella abbastanza grande. Ma lì in fondo, dove si avverte una minacciosa mancanza di aria, ti prende un’altra vertigine: è come se si fossero concentrate e rese palpabili tutte le sofferenze che subirono i primi cristiani per la loro fede.
Certi giorni, soprattutto festivi, Khor Virap si riempie di allegria. Le celebrazioni liturgiche della Chiesa armena sono rumorosamente festose. Battesimi e matrimoni, soprattutto, diventano occasione di festeggiamenti che spesso coinvolgono tutti coloro che sono presenti, ospiti attesi o inattesi, in visita al monastero.
Oggi si celebra nel monastero una cerimonia particolare. Antica e suggestiva, la cui istituzione viene fatta risalire direttamente a Gregorio l’Illuminatore. Matagh è la parola in lingua armena che designa il rito del sacrificio di un animale, che viene offerto a Dio in occasione di eventi importati della vita. Per i vivi o per i defunti. Per grazia ricevuta o per richiesta di grazie Per la pace o per la salute di un malato. La Chiesa Armena è la sola, tra le cristiane, ad aver mantenuto in modo ufficiale un simile rito.
E’ la mattina di Pasqua. Il sole è già alto e ritaglia ancora grandi trapezi di ombra. Un famiglia entra nel monastero, portando un agnello e una colomba. Il padre tiene tra le braccia l’agnello. La madre, un profilo di Madonna, porta una colomba bianca in una gabbietta. E’ vistosamente incinta. Un ragazzo di dieci-undici anni cammina accanto a loro. Hanno i vestiti della festa. Forse vengono da lontano. Con loro un gruppo di altre persone, parenti che vogliono partecipare al matagh. Appena dentro il monastero, un monaco si fa loro incontro. Li stava aspettando. Si salutano con sorrisi e abbracci. Certamente si conoscono. Il monaco dà subito una benedizione alla donna incinta imponendole una mano sulla testa. E poi tutti insieme si dirigono verso la parte sinistra del cortile, in direzione della chiesa del pozzo di san Gregorio. I pochi turisti in visita guardano incuriositi passare questa piccola processione con passo serio e compatto. Si dirige presso il mataghatun, il luogo riservato in Khor Virap all’esecuzione del sacrificio matagh. Nella maggior parte degli altri monasteri, il matagh si celebra sotto le volte del gavit, la struttura architettonica che sta davanti all’ingresso della chiesa vera e propria, perché il rito non è un’azione liturgica in senso specifico che si possa fare dentro chiesa.
Gregorio l’Illuminatore aveva ideato questo sacrificio in segno di ringraziamento a Dio per la conversione di Tiridate e dell’Armenia. Ma concretamente Gregorio intendeva con il sacrificio di animali dar da mangiare e sfamare poveri e bisognosi, ai quali veniva destinata parte della carne macellata. Ancora oggi il matagh è chiamato “il cibo dei poveri”. Un rito divino e umano insieme. Altri segni importanti sono presenti nel matagh. L’offerente è sempre un uomo, laico e credente. L’animale sacrificato deve essere maschio, giovane, sano e di colore bianco. La parola matagh propriamente significa “giovane, tenero”. Il sale, elemento purificatore per eccellenza, svolge una funzione importante nel sacrificio matagh. All’animale, prima di essere sacrificato, viene fatto ingerire una piccola quantità di sale, benedetto da un sacerdote. La carne deve essere cotta con lo stesso sale benedetto. Il sale rende adatto l’animale al sacrificio.
Il gruppo dei sacrificanti raggiunge il mataghatun, che si trova nella parte sottostante la terrazza panoramica, fatta apposta per ammirare la maestosità dell’Ararat ma anche il filo spinato del confine con la Turchia. Solo dopo un po’ di tempo, l’uomo esce dal mataghatun. Ha tra le mani la colomba. Anch’essa ha ingerito un po’ di sale benedetto. Ma non diventerà pasto per i poveri. L’uomo la lancia in alto con forza e la rimette in libertà. Così vuole il rito del matagh. La colomba deve tornare a ricamare il cielo con le sue ali bianche.
E’ notte. L’aria è già fresca, resa tersa da un vento sornione. Dal monastero di Khor Virap si vedono luccicare fiammelle inquietanti laggiù, verso le pendici dell’Ararat. Sono le luci delle postazioni militari russe da una parte e americane dall’altra. Potrà mai la colomba, liberata in volo la mattina di Pasqua, trovare nel cuore della notte il percorso celeste per andare a spegnere per sempre quei lumi con un colpo d’ala?