Non sono denunciati. Per paura, per mancanza di fiducia nelle istituzioni, oppure perché sono le stesse vittime a non riconoscerli come tali. Sono i crimini d’odio, in inglese hate crimes, che hanno origine da pregiudizi razziali, etnici, religiosi, linguistici o legati all’orientamento e all’identità sessuale. «È necessario un impegno comune delle istituzioni e della società civile e, in particolare, un maggiore dialogo tra forze dell’ordine e associazionismo», è questo il senso della conferenza che martedì 7 giugno ha riunito alla Camera del Lavoro di Milano gli esperti spagnoli, italiani, cechi e ciprioti del progetto “Together-Fighting against hate crimes” (Insieme-Per combattere i crimini d’odio).
Al convegno è stato presentato, in contemporanea con Bruxelles, l’ultimo rapporto della Commissione europea sull’intolleranza e il razzismo (Ecri). Ha detto il suo rappresentante Denis Roth-Fichet: «La mancata denuncia dei crimini d’odio è una questione da affrontare per molti Paesi, Italia compresa».
Le segnalazioni all’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (Oscad), che unisce corpi diversi delle forze dell’ordine, sono state 56 nel 2010, 472 nel 2013 e 596 nel 2014, così ripartite: 413 per “razza/etnia”, 153 per credo religioso, 27 per orientamento sessuale e 3 per disabilità; i dati sui crimini razzisti includono 1 omicidio, 34 aggressioni, 11 danni alla proprietà, 9 casi di furto e rapina, 4 di vandalismo e 52 di minacce.
Per l’Ecri, il nuovo Piano italiano d’azione contro il razzismo, la xenofobia e l’intolleranza è un’occasione da non sprecare: «Propone interventi per contrastare il discorso d’odio e la violenza razzista, omofobica e transfobica, tra cui il miglioramento degli strumenti per la raccolta dei dati».
Accanto a questo, però, l’Ecri condanna – ancora una volta – la condizione di forte emarginazione e discriminazione dei rom in Italia, soprattutto sul diritto all’alloggio, mentre la Strategia Nazionale per l’Inclusione del 2012 è ferma al palo, lontana dall’applicazione concreta, con solo 11 tavoli regionali istituiti su 20. Continua Roth-Fichet: «Inoltre all’Italia chiediamo con urgenza di ratificare il Protocollo 12 alla Convenzione sui diritti dell’uomo, che riguarda la criminalità informatica, e di garantire la totale indipendenza dell’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali (Unar), che oggi invece dipende dal Governo».
Per Milena Santerini, deputata e presidente dell’Alleanza parlamentare contro l’intolleranza e il razzismo del Consiglio d’Europa, «il rapporto ha il merito di mettere in luce i legami di continuità, in una scala in crescendo, tra linguaggi e crimini d’odio. Spesso il digitale è l’ambiente in cui matura questa crescita: occorre coinvolgere le grandi società del web nell’opera di contrasto, oltre a prevedere la rapidità (da ridurre a poche ore) dell’obbligo di rimozione dei discorsi d’odio non appena vengono segnalati a siti e social network; oggi passano invece diverse settimane, permettendo la diffusione virale dell’hate speech».
Durante il convegno milanese, il libraio e scrittore italo-senegalese Pap Khouma ha portato la voce delle vittime. Unar, le associazioni promotrici e i rappresentanti delle polizie europee hanno riflettuto sulle cause delle mancate segnalazioni. Da un lato, le forze dell’ordine non sempre dispongono degli strumenti necessari a identificare prontamente questi reati: nelle segnalazioni tralasciano dettagli importanti sui pregiudizi che potrebbero aver motivato un certo crimine, facendo venir meno la specificità del reato d’odio. Per contro, le associazioni della società civile non sono sempre in grado di segnalare correttamente un hate crime perché sprovviste delle competenze specifiche. «La comunicazione tra i primi e i secondi», hanno concordato gli esperti, «è poco efficace in quanto irregolare e discontinua, talvolta persino assente. Al contrario, se le associazioni e soprattutto i rappresentanti delle comunità vittime riuscissero a interagire meglio con le forze dell’ordine, con contatti regolari e strutturati, si instaurerebbe un circolo virtuoso efficace nel contrastare i crimini d’odio, a vantaggio delle vittime e dell’intera collettività».
In questo senso il progetto “Together” rappresenta una buona prassi. La Cgil, l’Università di Roma Tre, le Ong Lunaria (Italia), Sos Racismo Guipuzkoa e Sos Racismo Catalunya (Spagna), Kisa (Cipro) e Opu (Repubblica Ceca) hanno elaborato un programma per forze di polizia e membri di associazioni nei quattro Paesi, lo hanno sperimentato con 420 agenti e 245 operatori in 20 sessioni di formazione, prodotto un manuale per futuri formatori e promosso scambi di informazione tra la società civile e le agenzie di investigazione sul modello di quanto fa già da tempo la Polizia locale di Barcellona.
Stefano Pasta