“Segregare
costa” è la sintesi che ben rappresenta il fallimento sociale,
culturale ed economico dell’utilizzo
dei fondi pubblici per l’allestimento e la gestione del sistema dei
“campi nomadi”, gli spazi che le istituzioni hanno privilegiato
per “ospitare” rom e sinti nelle nostre città.
La cooperativa
Berenice, le associazioni Compare, Lunaria e OsservAzione hanno
analizzato i casi di Milano, Roma e Napoli tra il 2005 e il 2011.
Attenzione: il Rapporto considera i “campi nomadi” autorizzati
dai Comuni, non le baraccopoli abusive continuamente sgomberate in
questi anni.
Il primo dato che
emerge è che le risorse pubbliche investite nei campi sono spesso
poco trasparenti, ma sicuramente ingenti; analizzando i bilanci delle
tre città, si arriva infatti a ben oltre cento milioni di euro. Con
una conseguenza importante: «Per
giustificare il mantenimento dei “campi nomadi”»,
si legge nel Rapporto,
«si
afferma generalmente che non ci sono risorse pubbliche sufficienti,
veicolando il messaggio secondo cui i campi costituiscono la
soluzione abitativa meno costosa. Non è così».
Tanti soldi, ma con
quali risultati? È qui che arriva la bocciatura senza appello: «La
segregazione
è non
solo
spaziale
e
abitativa,
ma anche
sociale
e
culturale delle
persone che vi risiedono». È il ripetersi di una scelta italiana
sbagliata, quella dei campi “nomadi” per famiglie che non sono
più nomadi da vari decenni.
Una scelta di politica abitativa, fatta
dalle città italiane a partire dagli anni Settanta, che ci ha reso
“il Paese dei campi”. Ma i campi nomadi non c’entrano nulla con
una presunta “cultura rom”.
«Ciononostane»,
ricorda il rapporto, «nelle
grandi città italiane il modello del campo è ancora oggi quello
prevalente, grazie a un approccio istituzionale che si fonda su (e
continua a perpetuare) stereotipi e pregiudizi consolidati nei
confronti dei rom, presupponendone il nomadismo, la propensione alla
devianza e l’inconciliabilità culturale che ne impedirebbero a
priori l’inserimento
lavorativo e sociale».
Il campo
diventa spesso un ghetto, con tutti i problemi sociali del ghetto.
Sottolinea ancora il Rapporto: «Sono quasi sempre collocati nelle
aree periferiche delle città, isolati, spesso non collegati con i
centri urbani dai mezzi di trasporto pubblico, quando non vicini a
discariche o ai grandi assi viari. Sono, al di là delle intenzioni
più o meno dichiarate, veri e propri ghetti,
funzionali a relegare i rom ai margini delle nostre città e a
mantenerli in una condizione di estraneità
rispetto
alla società maggioritaria».
Così, i ragazzi
cresciuti ai margini della città soffrono maggiormente l’esclusione
sociale di cui è vittima il gruppo a cui appartengono. Come i
giovani di Via Salone a Roma, il campo rom più grande d’Europa,
posto fuori dalla città, addirittura oltre il Grande Raccordo
Anulare, dove vivono 1.200 persone di varia nazionalità. Il campo
non è collegato con i mezzi pubblici e non ha alcuno spazio comune.
La distanza tra i container dove vivono le famiglie è di circa due
metri. I bambini vanno la mattina a scuola in istituti molto lontani
grazie a un servizio di pulmini e, date le distanze e il traffico,
arrivano sempre in ritardo di almeno un’ora ed escono un’ora
prima.
«Qua non ho una vita sociale», spiega una madre ricordando
quando nel loro vecchio quartiere incontrava le mamme dei compagni di
suo figlio all’uscita della scuola, prima che l’amministrazione
li trasferisse fuori città.
Cosa fare?
Secondo le associazioni che hanno redatto lo studio, «è urgente e
necessario che le istituzioni cambino del tutto il proprio approccio,
abbandonando soluzioni “temporanee” e “ghettizzanti” per
progetti di inclusione abitativa, sociale e lavorativa.
I
“piani nomadi” devono e possono essere sostituiti da “Piani
di chiusura dei campi nomadi”.
Questi ultimi non hanno naturalmente niente a che vedere con le
vergognose politiche degli “sgomberi” che accompagnano le
“politiche dei campi”. Pianificare la chiusura di questi ultimi
significa prefigurare
soluzioni abitative alternative, concordando con i residenti tempi e
modalità del cambiamento».
Basta
ghetti. Del resto, come dimostrano le buone pratiche di Pisa, Padova
e Bologna riportate nel rapporto, le alternative possibili sono
molte: dal sostegno all’inserimento in abitazioni ordinarie o in
case di edilizia popolare pubblica, all’housing
sociale,
alla promozione di interventi di auto-recupero di strutture pubbliche
inutilizzate.
Stefano Pasta