Mentre il mondo intero si dibatte tra crisi globali e scenari imprevedibili, l'Italia affronta il 2025 con un bagaglio di sfide politiche ed economiche che ne potrebbero ridefinire il volto istituzionale e produttivo. Al di là delle valutazioni, l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni si trova di fronte a un bivio cruciale: dimostrare di essere all'altezza delle proprie ambizioni riformiste o scivolare nei meandri delle contraddizioni interne e delle resistenze esterne. Non è solo una questione di promesse elettorali: per il governo si tratta di mettere mano a meccanismi che da decenni zoppicano, con risultati che potrebbero cambiare radicalmente il volto del Paese.
Tre sono i cardini delle riforme politiche promosse dall'esecutivo: la separazione delle carriere in magistratura, l’autonomia differenziata e l’introduzione del premierato.
Progetti ambiziosi, certo, ma ognuno gravato da polemiche e interrogativi che mettono in discussione non solo la loro fattibilità, ma anche la loro opportunità.
La separazione delle carriere mira a distinguere nettamente il ruolo dei pubblici ministeri da quello dei giudici. È una necessità per rafforzare l'imparzialità e la fiducia nel sistema giudiziario, dichiara il ministro della Giustizia Carlo Nordio. Ma è proprio qui che si annida il nodo più spinoso: con un pm separato, magari sotto l'ala protettrice di un Consiglio Superiore della Magistratura distinto, quanto è concreto il rischio di un controllo politico eccessivo da parte dell'esecutivo? E se il pubblico ministero, che oggi ha l'obbligo di raccogliere anche le prove a discarico dell’imputato, diventasse un semplice accusatore, quante probabilità ci sono che si trasformi in un inquisitore, mettendo in un cassetto le prove a favore dell’imputato nel caso si imbattesse in esse durante le indagini? Le critiche piovono non solo dall’opposizione, ma anche da giuristi e accademici, preoccupati per una possibile deriva autoritaria e da una forzatura costituzionale.
Il secondo pilastro è l'autonomia differenziata, un tema che divide il Paese come poche altre questioni. Il progetto, caro soprattutto alle regioni del Nord, punta a concedere maggiori poteri in settori strategici come la sanità e l'istruzione. Un passo necessario verso un federalismo maturo, sostengono i promotori. Ma i detrattori vedono in questa riforma il pericolo di ampliare il divario già profondo tra Nord e Sud. La Consulta ha già espresso importanti rilievi salvandone il guscio ma incidendo sui contenuti, poiché non rispettava il concetto di bene comune e di sussidiarietà, e il referendum abrogativo previsto nel 2025 potrebbe essere un banco di prova decisivo.
Infine, c'è il tema del premierato, forse il più delicato di tutti. L’idea di rafforzare i poteri del Presidente del Consiglio è già di per sé divisiva, ma il vero problema è che implica un ripensamento strutturale della democrazia italiana. Un modello che guarda al sistema francese o, in parte, a quello britannico, con l'obiettivo dichiarato di garantire maggiore stabilità e governabilità. Tuttavia, anche nella maggioranza c’è chi storce il naso, temendo una concentrazione di potere difficile da bilanciare.
Sul fronte economico, il quadro è altrettanto complesso. Le previsioni parlano di una crescita del Pil intorno all’1,2%, ma la strada per raggiungere questo obiettivo appare accidentata. Con un debito pubblico che viaggia al 134% del Pil, il governo sarà costretto a muoversi su un filo sottilissimo tra rigore fiscale e necessità di stimolare l'economia. La Commissione europea, tornata a esercitare pressioni e vincoli draconiani dopo la parentesi pandemica, non farà sconti.
Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) rappresenta una carta fondamentale, con investimenti in digitalizzazione, transizione ecologica e infrastrutture. Ma i ritardi accumulati rischiano di comprometterne l’efficacia. Riuscirà il governo a sbloccare le risorse e a metterle a frutto? O il PNRR finirà per essere l'ennesima occasione sprecata?