Una delle serie più longeve della Tv ci immerge nella natura delle Alpi di San Vito di Cadore, tra battaglie ecologiste e delitti da svelare. Un passo dal cielo torna su Rai 1 dal 9 gennaio con sei nuovi episodi. Il protagonista maschile è di nuovo Nathan, un uomo solitario che ha scelto di vivere in mezzo ai boschi, dove era stato rinvenuto bambino e allevato da un’orsa. Ha il volto di Marco Rossetti, un attore dotato di fascino ma anche capace di interpretazioni intense e che dal 14 gennaio rivedremo sempre su Rai 1 anche nella seconda stagione di Blackout 2, un thriller distopico ancora ambientato in montagna.
Quanta affinità c’è tra lei e Nathan?
«È un uomo schivo che non entra mai troppo in confidenza con la civiltà. Ogni volta che lo interpreto ritrovo una parte di me che ho dimenticato. Un po’ perché la montagna ti fa sentire così piccolo, ti ridimensiona. E un po’ perché lui è uno che parla solo quando è necessario e in questo mi ci ritrovo. Purtroppo, questo periodo storico, con l’invadenza dei social, non mi permette di isolarmi come vorrei».
Nathan è anche un cacciatore. Nel primo episodio, lo vediamo puntare l’arco contro una lepre. Ci sono state proteste di animalisti?
«Nathan vede la caccia come agli albori, per necessità. Caccio l’animale perché ho bisogno di mangiare, ma lo rispetto e lo ringrazio. Diverso è lo sfruttamento degli animali negli allevamenti intensivi. Il suo è un atteggiamento, secondo me, molto nobile».
Lei hai un cane…
«Sì, da quattro anni. Si chiama Nata, diminutivo di Fortunata. È un meticcio randagio che ho trovato in un canile dell’Abruzzo. Una compagna di vita».
In un episodio, arriva in Cadore un gruppo di ricercatori in cerca di un metodo per arrestare lo scioglimento dei ghiacciai. Un tema molto urgente.
«La morte di un ghiacciaio è un fenomeno irreversibile e mi fa soffrire che il tema ambientale sia così ignorato da chi determina le scelte politiche. Nel mio piccolo cerco di avere uno stile di vita ecosostenibile: non accendo i riscaldamenti né l’area condizionata, uso il meno possibile l’auto, giro per Roma in bicicletta».
Due serie realizzate in montagna. È un luogo che ama anche nella vita privata?
«Appena posso vado in montagna per ricaricarmi dalla stanchezza del lavoro e dalla vita caotica di Roma. Il mio luogo del cuore è la Val di Fiemme, dove ho trascorso le vacanze da bambino. Mia madre da dieci anni vive lì».
Nella serie esibisce un fisico molto atletico. È uno sportivo?
«Ho praticato a livello agonistico pallanuoto e pugilato. Sono stato anche tantissimo a cavallo da dovevo cavalcare era bello come salire su una giostra».
Nella docu-serie Speravo de morì prima su Francesco Totti ha interpretato il calciatore della Roma Daniele De Rossi. Ha anche giocato a calcio?
«Sì, ma ero nelle giovanili della Lazio e i miei fratelli mi hanno preso molto in giro quando ho dovuto indossare la maglia romanista. Ma per testimoniare che la mia fede non mutava, il primo giorno delle riprese mi sono presentato sul set con la maglietta della Lazio sotto quella della Roma».
Da adolescente era un ribelle. La recitazione l’ha salvata?
«Ne ho combinate parecchie, in effetti, ed è stato determinante l’incontro con il teatro a scuola a 16 anni. A ripensarci mi vengono ancora i brividi. È stata una forma di conoscenza di sé, dove ho canalizzato anche la rabbia, trovando così tanta energia positiva. Prima frequentai la scuola della Scaletta, poi sono entrato nel Centro sperimentale di cinematografia. Già dopo il primo anno di assidua frequenza, sono entrato a far parte del cast della serie R.I.S., ma sono riuscito a conciliare entrambi i percorsi e alla fine mi sono diplomato. Mi reputo un privilegiato e ogni giorno ringrazio il Cielo. Credo assolutamente che esista qualcosa sopra di noi, e lo avverto con maggiore forza proprio quando mi trovo in mezzo alla natura, alle montagne».