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martedì 11 febbraio 2025
 
intervista
 

«Tregua fragile ma è un segno di speranza dopo 15 mesi di guerra. Invito i pellegrini a tornare»

19/01/2025  Il Custode di Terra Santa, padre Francesco Patton: «Speriamo che regga. Qui tutto è fragile ma meglio questo cessate il fuoco che niente. Dobbiamo incoraggiare e sostenere questi passi con la preghiera. La Striscia è un cumulo di macerie, serve l’intervento della comunità internazionale per garantire i servizi essenziali alla popolazione. I cristiani di Terra Santa hanno bisogno che tornino i pellegrini»

«La tregua tra Israele e Hamas è partita con qualche ora di ritardo rispetto agli accordi e questo conferma quanto sia fragile. Speriamo che regga. Qui in Terra Santa, per definizione, tutto è fragile. Meglio, però, qualcosa di fragile che niente. Dopo quindici mesi di guerra, distruzione e sofferenza da una parte e dall’altra bisogna andare avanti, incoraggiare e sostenere questi passi con la preghiera».

È l’analisi del Custode di Terra Santa, padre Francesco Patton, sulla tregua a Gaza iniziata ufficialmente alle 11.15 (le 10.15 in Italia) di domenica 19 gennaio e salutata con festeggiamenti in piazza dalla popolazione locale. Patton tra il 23 e il 29 gennaio sarà in Italia, a Roma, Napoli e Perugia, per portare la sua testimonianza sulla situazione in Medio Oriente e presentare il libro – intervista Come un pellegrinaggio. I miei giorni in Terra Santa (TS Edizioni), scritto con il giornalista dell’Osservatore Romano Roberto Cetera.

Padre, come si è arrivati a un accordo?

«È stata decisiva la pressione americana, sia quella di Joe Biden che soprattutto quella di Donald Trump che lunedì si insedia ufficialmente come presidente degli Stati Uniti. L’accordo discusso e raggiunto in questi giorni ricalca la proposta di otto mesi fa che all’epoca però Biden non aveva la forza di imporre, essendo in campagna elettorale e politicamente molto debole. L’intervento di Trump da questo punto di vista è stato positivo, il suo intervento di fatto ha accelerato il negoziato per arrivare a un accordo in tempi brevi».

Ora che succede?

«I passi successivi andranno elaborati un po’ alla volta, si spera che questi quarantadue giorni di tregua reggano e servano anche a definire una road map per la pace perché adesso siamo in una fase di cessate il fuoco. La questione di fondo è che bisogna arrivare a una soluzione politica della questione palestinese altrimenti tra qualche anno saremo daccapo e questo non conviene né a Israele né ai palestinesi. Se non si prende consapevolezza di questo, non si va da nessuna parte».

Quali sono i suoi timori?

«Che la tregua possa essere sabotata da qualcuno che nell’uno o nell’altro campo gioca contro. Incidenti e trappole possono far saltare i patti in ogni momento. Noi l’unica cosa che possiamo fare è pregare che non accada e si prosegua su questa strada».

Il governo israeliano si è spaccato. Il partito di estrema destra del ministro della sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir, Potere ebraico, ha annunciato la sua uscita dalla coalizione che sostiene Netanyahu. Che significa questo?

«Conferma quello che sapevamo da tempo e che i quotidiani israeliani, da Haaretz a The Times of Israel, hanno scritto con estrema franchezza subito dopo il 7 ottobre. In questi anni e ultimi mesi Netanyahu ha sempre favorito Hamas con lo scopo di indebolire l’Autorità nazionale palestinese per evitare la nascita di uno stato palestinese. Ricordo che The Times of Israel poche settimane dopo il 7 ottobre scrisse che Netanyahu ha alimentato Hamas e Hamas è scoppiato in faccia a noi israeliani. La politica della destra israeliana, da sempre, è quella di non volere la nascita di uno stato palestinese come conferma l’uscita dalla coalizione di governo di Ben Givr. Ma, ripeto, la nascita di uno Stato palestinese è l’unica garanzia di una pace stabile. Una dei portavoce delle famiglie degli ostaggi, Rachel Goldberg-Polin, ha detto che bisogna arrivare prima di tutto a capire gli uni la sofferenza degli altri e che per questa via bisogna arrivare a riconoscere gli uni agli altri il diritto a esistere, in un modo o nell’altro, sotto una forma riconosciuta, ossia di uno Stato».

È possibile?

«È doveroso perseguire questa strada che è l’unica per arrivare alla pace. La stessa ripresa dei Patti di Abramo, che sta tanto a cuore a Trump, è possibile se l’Arabia Saudita aderirà. E lo farà solo a patto che ci sia una soluzione politica della questione palestinese».

 

Le macerie nella Striscia di Gaza (Ansa)

Subito dopo il cessate il fuoco a Gaza la popolazione ha festeggiato. Qual è la situazione nella Striscia?

«Gaza è un cumulo di macerie a cielo paerto, qualcuno dice che ci vorrebbero 30 anni per ricostruirla. Il cardinale Pizzaballa (Patriarca di Gerusalemme, ndr), che è andato diverse volte, mi ha raccontato quello che ha visto. Uno scenario da paura, un livello di distruzione impressionante come mai si era visto nella storia, pur tribolata, di questa terra. La prima cosa da fare adesso è quella di garantire alla popolazione civile i servizi essenziali che permettano loro di sopravvivere. Suppongo che in una prima fase la Striscia di Gaza diventerà un immenso campo profughi da 2 milioni di persone che vivrà in tende e per i quali bisognerà allestire scuole e ospedali da campo».

Chi gestirà tutto questo in maniera ordinata?

«Questo è il punto. Di sicuro non lo potrà fare l’esercito israeliano, alla fine sarà ancora Hamas a farlo se l’Autorità palestinese non riuscirà ad entrare. Per questo ritengo fondamentale che la comunità internazionale abbia un peso e una capacità molti diversi da quelli, debolissimi, avuti fino ad ora. Per dare concretezza alla tregua e iniziare a pensare alla ricostruzione, devono esserci corpo d’interposizione, caschi blu che garantiscano l’ordine pubblico, offrano garanzie per gli operatori sanitari e umanitari. Oggi i bambini giocano in mezzo alla sabbia che si mescola ai liquami. Ieri ho incontrato suor Nabila, presente per lunghi mesi nella parrocchia della Sacra Famiglia di Gaza, e mi ha detto che desidera ritornare a Gaza e riprendere servizio ma bisogna che ci siano le condizioni. La scuola è ripartita, ma in questa fase tutto è molto difficile e delicato».

Come state vivendo il Giubileo?

«Il tema dell’Anno Santo, “Pellegrini di speranza”, si attaglia perfettamente alla nostra situazione. Come ordinari di Terra Santa non solo abbiamo detto che la speranza non delude ma che nel contesto in cui stiamo operando non solo qui ma anche in Libano, in Siria, in Iraq, in tutto il Medio Oriente, bisogna avere una speranza molto resiliente».

Cos’è la speranza oggi in Terra Santa?

«Il fatto che faticosamente si sia arrivati a una tregua. Il fatto che adesso riaprano le rotte internazionali dei voli per permettere ai pellegrini di tornare a visitare i luoghi santi che speriamo che arrivino nei prossimi mesi anche in occasione del Giubileo. Proprio ieri ho fatto un appello congiunto con il Patriarca Pizzaballa perché ritornino i pellegrini. I cristiani di Terra Santa ne hanno bisogno perché non si sentano soli e perché centinaia di migliaia di famiglie vivono dell’indotto economico generato dai pellegrinaggi. Inoltre, i pellegrini, contribuiscono essi stessi, indirettamente, al processo di pace perché la loro presenza diventa un elemento di pressione per evitare la guerra e non farli più venire. Anzi, colgo l’occasione di questa intervista per rivolgermi ai lettori di Famiglia Cristiana e invitarli a venire in Terra Santa e a non avere paura. Tra pochi giorni sarò in Italia per raccontare la situazione e invitare i fedeli a tornare».

Alcuni palestinesi festeggiano il cessate il fuoco tra Israele e Hamas a Gaza (Reuters)

 

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