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Home page>Foto e video>Video>C’è una “casa” per Nadea...

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C’è una “casa” per Nadea e Sveta? Il film di Maura Delpero
Le due protagoniste, diverse per età, lavorano come badanti. La regista Maura Delpero da un lato punta la camera sulle loro famiglie rimaste a Chișinău: Nadea ha lasciato figli ormai grandi, mentre Sveta ha dovuto affidare alla madre la sua bimba di tre anni. Con un conseguente ribaltamento dei ruoli di genere nelle loro famiglie, dove gli uomini ora non hanno lavoro, ricevono i soldi dalle mogli e talvolta cadono vittime dell’alcolismo.

Dall’altro lato il film racconta la vita bolognese delle donne dell’Est Europa. Significa ritrovarsi con le tue connazionali nel parco cittadino o nelle balere di periferia frequentate da maschi attempati alla ricerca di un’avventura. Pregare tra canti e segni della croce, candele e baci di icone nella Chiesa ortodossa della città. Ma soprattutto – e qui ritorna l’altro polo del film – parlarsi via webcam con la madre che, indicando tua figlia, dice: «Guarda com’è cresciuta».

Finché, dopo aver vissuto «due anni e mezzo come in galera», Sveta riceve il permesso di soggiorno: ora è «libera» di tornare in patria e rivedere finalmente la figlia. Prima le era vietato perché senza documenti, nonostante accudisse un’anziana italiana (in nero). Se fosse tornata ad abbracciare la figlia, avrebbe perso la possibilità di rientrare in Italia e guadagnare i soldi con cui dava da mangiare alla famiglia a Chișinău.

Alla partenza dell’amica, Nadea rimane sola a Bologna e cerca di reagire alla solitudine. Le due amiche continueranno a confidarsi e ad aiutarsi a distanza, anche quando i loro destini si incroceranno fino ad invertirsi, in una vicenda di donne sempre pronte a ripartire.

Storie della porta accanto, o del giardino sottocasa, fieramente raccontate al femminile. Ne spiega la genesi la regista: «Alcuni anni fa ho fondato un’associazione per l’insegnamento dell’italiano alle donne dell’Est Europa. Mi hanno subito colpito la forza morale, la determinazione e l’assenza di qualsiasi altisonanza nel raccontare vere e proprie avventure. Più di tutto non riuscivo a capire come queste donne potessero convivere con la nostalgia e la frustrazione di non vedere crescere i propri figli. Ho sempre terminato questi corsi con grandi punti di domanda e una fascinazione per l’eroicità di queste storie sommerse».

Poi, una domenica di primavera, la regista è entrata in un parco a Bologna: «Quel giorno ho “visto” il film. Non c’era un solo italiano, solo tantissime donne straniere, sedute in piccoli gruppi, che mangiavano, chiacchieravano, telefonavano. Mi ha emozionata il loro modo di stare insieme perché sembravano stringersi l’una all’altra in un ideale abbraccio».

Il film è attraversato dal silenzio delle attese, come quando coglie l’indecisione emozionata di Sveta che deve scegliere le calze da ballo da regalare alla figlia Eloiza che non vede da anni («Le saranno troppo grandi?»). L’unità ritrovata è mostrata nel risveglio assonnato dopo le prima notte insieme, in una luce soffusa di una mattina grigia. Una quotidianità agognata, un’abitudine che si è trasformata in lusso: poter abbracciare la propria bambina e darle il buongiorno tra il fruscio delle lenzuola, la dolcezza delle parole sussurrate, l’odore degli sbadigli e la corporeità del solletico. Non mancano i problemi: anni di lontananza rendono difficile la comunicazione tra madre e figlia e Sveta vorrebbe educare la bambina in modo diverso da come ha fatto la nonna. Ma grazie al nuovo permesso di soggiorno, Sveta riesce a portare in Italia Eloiza; inizia la nuova ricerca di “casa propria” e la costruzione della relazione tra mamma e figlia.

È l’immagine di una domenica pomeriggio bolognese: pista di ghiaccio, Sveta pattina provando a mostrarsi sicura, la bambina si aggrappa alle sue ginocchia per non cadere, mentre Nadea osserva rassicurante.

Stefano Pasta

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