A più di un anno e mezzo dalla diffusione di ebola in Africa occidentale, il bilancio è di quasi 28 mila persone infette e oltre 11 mila morti. La buona notizia è che secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, al 9 agosto i nuovi contagi si sono fermati sotto il cinque per tre settimane di fila,
cioè il livello più basso dell’epidemia.
A inizio agosto i casi sono stati tre: un bambino di otto mesi in Sierra Leone e due adulti in Guinea, mentre in Liberia – il Paese che ha avuto più morti – tutti i casi sospetti hanno superato il periodo di incubazione del virus.
Si inizia anche a pensare a come evitare epidemie del genere in futuro: in un recente incontro nella capitale sierraleonese Freetown si è proposta la
costruzione di una grande bio-banca in Africa per raccogliere i campioni biologici di vittime e superstiti. «Saranno fondamentali per capire come si è evoluta la crisi», spiega
Cathy Roth dell’Oms, «per sviluppare la capacità di ricerca in una regione che dipende totalmente da esperti stranieri».
Tuttavia, passato l’apice dell’epidemia e la paura del contagio in Occidente,
il rischio è di dimenticarsi dell’“emergenza nell’emergenza”, cioè le terribili conseguenze lasciate da ebola. A partire proprio dalla salute:
oltre 500 sono i medici e gli infermieri uccisi dal virus, in un’area dove il loro numero era già scarso. «La perdita di operatori sanitari», dice Markus Goldstein, economista della Banca Mondiale, «può far tornare questi paesi al livello di 15-20 anni fa».
Per questo, secondo un rapporto di questa istituzione, oltre 4 mila donne potrebbero morire nei prossimi mesi per le complicazioni del parto; se le previsioni fossero confermate,
la mortalità materna aumenterebbe del 38% in Guinea, del 74% in Sierra Leone e del 100% in Liberia.
Inoltre, chi è sopravvissuto al virus paga le conseguenze sul proprio corpo: per l’Oms la metà soffre di artralgia, dolori che colpiscono le articolazioni e i tessuti circostanti, impedendo di tornare al lavoro e provvedere al cibo per la propria famiglia, mentre
il 25% ha conseguenze agli occhi che in alcuni casi potrebbero portare alla cecità. Non mancano depressioni e stress post-traumatici.
L’Unicef invece lancia l’allarme sui giovani che nei tre Paesi più colpiti sono otto milioni e mezzo sotto i 20 anni, due e mezzo sotto i 5. A gennaio 16.600 bambini avevano perso la mamma o il papà, 3.600 dei quali entrambi i genitori.
Per sostenere l’impegno dell’Agenzia per l’Infanzia
è sceso in campo l’ambasciatore Unicef Orlando Bloom, attore famoso per “Il Signore degli Anelli” e “Pirati dei Caraibi”, che
a marzo si è recato nella capitale liberiana Monrovia.
Due i progetti visitati: l’A-life project a West Point, uno dei quartieri più poveri, che
con educatori della zona ha raggiunto più di 25 mila persone, diffondendo le conoscenze su come limitare i contagi. E una
scuola elementare dove sono stati introdotti dei protocolli sanitari per contrastare la trasmissione del virus, come la misurazione della temperatura degli scolari al suono della campanella e il lavaggio delle mani prima di sedersi ai banchi.
Le lezioni sono riprese solo a gennaio in Guinea, a febbraio in Liberia e a maggio in Sierra Leone. Ha commentato Bloom: «Sono eccitati all’idea di tornare in classe,
a causa dell’epidemia cinque milioni di bambini non hanno frequentato la scuole per almeno metà anno scolastico».
Ad agosto sono iniziate le vacanze estive e le misure adottate con il supporto dell’Unicef sembrano aver funzionato: da quando sono introdotti i rigidi protocolli sanitari, non si sono verificati casi di docenti o alunni contagiati.
Nei tre Stati, gli insegnanti formati nella prevenzione sono stati 109 mila, di cui 32 mila dall’Unicef, che ha anche rifornito le scuole con kit lavamani, sapone, cloro e prodotti per la pulizia.
Spiega Geoff Wiffin, rappresentante dell’Agenzia in Sierra Leone: «Gli alunni, che hanno imparato a scuola come proteggere se stessi e gli altri, hanno trasmesso le loro conoscenze nelle famiglie e nelle comunità di appartenenza.
Questo “contagio” della prevenzione ha svolto un ruolo fondamentale nella battaglia contro l’epidemia».
L’Unicef ha proposto di mantenere in funzione queste misure anche alla ripresa della scuola, in modo da poter diffondere una miglior cultura della salute.
Per il futuro l’istruzione rimane infatti un settore chiave: prima dell’epidemia, la frequenza scolastica era del 58% in Guinea, del 34% in Liberia e del 74% in Sierra Leone. Tra i problemi, la scadente qualità degli insegnanti e le carenze igieniche delle infrastrutture.
In Guinea solo il 33% delle scuole elementari dispone di impianti idrici, percentuale che sale di poco in Sierra Leone (40%) e in Liberia (45%).
Puntare sul futuro vuol dire anche iscrizione all’anagrafe: l’Unicef sta supportando una campagna del Governo liberiano per registrare più di 70.000 bambini. È un’altra delle gravi conseguenze di Ebola: «I bambini senza cittadinanza», ricorda Sheldon Yett, rappresentante dell’Agenzia in Liberia, «rischiano di rimanere ai margini della società. Potrebbero non avere accesso ai servizi sanitari e sociali, non ottenere documenti di identità ed essere così esposti alle varie forme di traffici o alle adozioni illegali».
Stefano Pasta