Ha scatenato polemiche ancor prima che qualcuno ne vedesse un solo fotogramma. «Sono cose che non mi toccano», ribatte il regista, «ciò che provo è solo un gran senso di libertà. Finalmente, il giudizio del pubblico».
È l’attacco del pezzo che Famiglia Cristiana dedicò a Renzo Martinelli in occasione dell’uscita nelle sale del film Porzus , sull’eccidio di partigiani cattolici della Brigata Osoppo nel febbraio del ’45 da parte dei compagni comunisti. La pellicola mise a rumore l’apertura della 54° Mostra del cinema di Venezia.
Era il 1997, ma quelle parole funzionano benissimo anche oggi per commentare Undici settembre 1683 , l’ultimo chiacchieratissimo titolo di Martinelli, nei cinema di tutta Italia proprio in questi giorni. Sullo schermo la spettacolare rievocazione di un episodio storico tanto importante quanto misconosciuto: la battaglia che in quella data si svolse attorno alle mura di Vienna, allora grande capitale dell’Impero Asburgico, tra i circa 60 mila soldati cristiani della Lega Santa (guidata dal re polacco Sobieski) e le forze cinque volte superiori dell’esercito ottomano (capitanato da Karà Mustafà). La coincidenza di date col tragico attacco terroristico alle Torri Gemelle di New York viene giudicata da alcuni come una forzatura di Martinelli. Ma lui respinge al mittente le critiche e sottolinea come «sia necessario prendere coscienza delle radici storiche di tanto odio per capire e dialogare».
Il tema, insomma, è quello caldissimo dei rapporti tra Occidente e Islam. Anche se l’ottica storica suggerirebbe un distacco capace di placare i bollenti spiriti. Lo stesso regista getta acqua sul fuoco: «Lungi da me l’intento di demonizzare l’Islam e la religione musulmana», assicura pur essendo la seconda volta che batte il ferro dopo aver diretto nel 2006 Il mercante di pietre , storia intimista su un attentato terroristico della jihad islamica. «Ciò che voglio è restituire il giusto rilievo alla figura storica di Marco d'Aviano, frate taumaturgo e uomo di fede a cui si deve la riuscita degli sforzi diplomatici per formare la Lega Santa, voluta da papa Innocenzo XI, e la successiva vittoria sul campo di battaglia. Non un sacerdote guerrafondaio ma un dotto dalla grande sensibilità storica e politica. Se non ci fosse stato lui a compattare le fila cristiane, oggi forse l’Europa sarebbe assai diversa».
Tutta una carriera contro corrente, quella del regista lombardo (nato a
Seveso nel 1948) che ogni volta che si è messo dietro la macchina da
presa lo ha fatto per puntare l’obiettivo su temi scottanti, episodi
controversi, realtà vere o presunte, ma dalle conseguenze comunque
urticanti. Dopo le storture della guerra partigiana era stata la volta
di Vajont , ricostruzione puntigliosa e toccante dell’esondazione
dell’omonima diga che nel 1963 provocò la morte di duemila persone nel
paese di Longarone («Una tragedia annunciata e non una pura fatalità»,
la versione di Martinelli). Con Piazza delle Cinque Lune aveva poi messo
il dito nella putredine di intrighi sviluppatasi attorno al rapimento e
all’assassinio di Aldo Moro, adombrando complicità e verità meno di
comodo. Carnera – The walking mountain fu l’occasione per mostrare al
pubblico l’abilità tecnica di un cineasta come Martinelli, formatosi con
spot pubblicitari e videoclip ma grande esperto di ottiche e
fotografia: bellissime le immagini un po’ flou dei match sul ring del
gigantesco pugile italiano e non banale il racconto di come la
propaganda fascista dell’epoca riuscì a manipolarlo e a far suo quel
mito.
Quattro anni fa, però, il grosso intoppo: Barbarossa , pellicola
con Rutger Hauer che avrebbe dovuto essere storica ma che il partito di
Bossi volle trasformare in operazione propagandistica, fa flop al
botteghino. Da allora, su Martinelli pesa l’etichetta di cineasta
leghista. Come personaggio gradito alla Lega Nord si dice che sarebbe
anche Marco da Aviano.
«Non diciamo sciocchezze, i leghisti non conoscono Marco», ribatte
Martinelli. «Anzi, si tratta di una figura pressoché sconosciuta anche
per la maggior parte dei credenti. È a questa ignoranza che voglio
porre rimedio». Sarà. Intanto, le polemiche montano. Ed è un peccato,
perché il polverone delle chiacchiere rischia di offuscare le qualità
artistiche di un film che è una importante coproduzione europea. Scene e
costumi sono di sontuosa bellezza, le immagini di suggestiva
spettacolarità e il cast di assoluto livello internazionale: la star
Murray Abraham veste il saio di Marco, il nostro Enrico Lo Verso
impersona Karà Mustafà mentre i polacchi Piotr Adamczyk e Jerzy
Skolimowski interpretano l’imperatore Leopoldo I e re Sobieski.
Come contributi alla formazione di una personale opinione, proponiamo
l’intervento critico di uno storico di chiara fama qual è Franco
Cardini; il punto di vista dell’esperto di cinema della Cei Massimo Giraldi e dell'imam Pallavicini; una bella intervista filmata negli Stati Uniti all’attore
F. Murray Abraham e, naturalmente, il resoconto di un approfondito
faccia a faccia con Renzo Martinelli. Quando si parla di film, il
consiglio è sempre lo stesso: prima vedere, poi giudicare. Nel caso di
11 settembre 1863 vale più che mai.
Maurizio Turrioni
L’appuntamento con Renzo Martinelli è ai tavolini di uno storico caffè milanese. Sui giornali e su alcuni siti on-line, sono già esplose le polemiche attorno a 11 settembre 1683 . Per alcuni critici un film anti Islam. Una forzatura secondo lo storico Franco Cardini. Un’operazione inutile e costosa a parere di Nino Rizzo Nervo, ex consigliere d’amministrazione Rai. Diamo la parola a un regista scomodo ma, come sempre, capace di lucida analisi.
Martinelli, come le è venuto in mente di girare un film del genere?
“Tutto è cominciato dodici anni fa. Ero a Cinecittà per mixare Vajont : mi telefonano i miei collaboratori e mi dicono di accendere la Tv perché a New York sono state attaccate le Torri Gemelle. Resto scioccato. E come tanti mi sento costretto a confrontarmi con una realtà fino ad allora ignorata, quella islamica. Nel 2001, quasi nessuno di noi in Occidente sapeva chi fossero gli sciiti, i sunniti, i salafiti, i wahabiti… Ho cominciato a leggere, a documentarmi, a capire quali fossero le ragioni di un odio così profondo da parte di alcuni settori di quella cultura verso l’Occidente. Solo un odio viscerale poteva giustificare un attacco terroristico di tali proporzioni. Oggi, potrei scrivere un libro sull’Islam. Decidiamo, all’epoca, di fare l’anteprima di Vajont proprio nella valle della tragedia di mezzo secolo prima. Con i tubi innocenti, costruiamo una platea all’aperto da mille e cinquecento persone per proiettare il film proprio sulla pancia della famigerata diga. Era ottobre e il giorno prima cominciò a piovere. Non la finiva più, eravamo disperati”.
A quel punto, che cosa è successo?
“Pensavo di dover annullare tutto. Ma mi si avvicina un tizio, che di nome fa Diotisalvi Perin, e mi dice: ‘Non c’è problema. Abbiamo pregato Marco d'Aviano e domani spiove’. Io non avevo la minima idea di chi fosse. Un mio collaboratore fa delle ricerche e mi segnala due date: 11 settembre del 2001 e 11 settembre del 1683. In me comincia a suonare un campanello… Il giorno dopo, continuava a piovere che Dio la mandava, un diluvio biblico. Incrocio ‘sto Perin e gli dico: ‘Marco d’Aviano in Paradiso conta zero, qui piove a più non posso’. E lui, serafico, ribatte: tranquillo. Alle quattro del pomeriggio si è alzato il vento e nel giro di mezz’ora ha spazzato via tutte le nuvole: abbiamo potuto proiettare il film per quattro sere consecutive”.
Insomma, il suo film sarebbe un debito d’onore?
“Beh, scherzi a parte, è nata in me la curiosità di scoprire chi fosse stato questo Marco d’Aviano. Di lì poi il desiderio di raccontare un grande sacerdote cristiano che fece nel Seicento un’operazione di alta diplomazia. Altro che Giovanna d’Arco! La Pulzella è un mito ma, dal punto di vista storico, le sue azioni hanno contato poco o nulla. Se non ci fosse stato Marco d'Aviano, invece, il destino dell’Europa sarebbe stato molto diverso. Probabilmente, oggi noi tutti pregheremmo inginocchiati verso la Mecca”.
“Pochi anni prima di quella fine estate del 1683”, racconta Martinelli, “il sultano Maometto IV aveva scaltramente firmato un trattato di pace con l’imperatore d’Austria Leopoldo I, tranquillizzandolo circa le intenzioni dei musulmani. Nel Corano, però, è prevista esplicitamente la possibilità di mentire in funzione della jihad… La menzogna non è un fatto riprovevole come da noi, bensì positivo se serve alla causa dell’Islam. Mentre firmava la pace, Maometto IV preparava già il suo esercito. Leopoldo I era un regnante dal carattere debole: voleva farsi sacerdote ma si era visto costretto a salire al trono a causa della morte del fratello. Per le grandi decisioni, si appoggiava perciò al suo consigliere spirituale, che era proprio Marco d'Aviano. Le condizioni dell’Europa, dopo le distruzioni della Guerra dei Trent’anni, erano simili a quelle di oggi: un continente diviso in fazioni e letteralmente stremato, sia economicamente che politicamente”.
E perché i turchi avrebbero tramato in barba al trattato?
“Era oltre un secolo, dalla sconfitta navale di Lepanto nel 1571, che l’Impero Ottomano covava la rivalsa. Mai l’Europa era apparsa come un boccone così ghiotto … Un’Europa in cui le fazioni cristiane erano in lotta tra loro. La Francia del Re Sole parteggiava segretamente per i turchi, certa che una loro vittoria avrebbe indebolito l’Impero degli Asburgo al punto da consentire ai francesi di accaparrarsene i territori. Non immaginando che la preda successiva dell’Impero Ottomano sarebbe stata proprio la Francia. Per i turchi, le condizioni per un attacco erano perfette. Fu così che il sultano Maometto IV, nella primavera del 1683, diede ordine di muoversi a un esercito forte di 300 mila unità, al comando del gran visir Karà Mustafà. Vero è che non tutti erano guerrieri: c’erano al seguito migliaia di fabbri, sterratori, carpentieri, perfino donne e addetti alle cibarie per il conforto della truppa. Nella battaglia di Vienna, comunque, la proporzione di forze in campo restò almeno di tre a uno in favore dei turchi rispetto ai cristiani”.
E’ a questo punto che entra in gioco Marco da Aviano?
“Fu capace d’intuire, contro il parere di tutti, le vere intenzioni dei musulmani… La sua prima impresa fu quella di convincere Leopoldo I e papa Innocenzo XI che era indispensabile formare l’esercito cristiano della Lega Santa, perché i musulmani sarebbero presto arrivati alle mura di Vienna. Fu Marco a sollecitare il Papa”.
In che cosa consistette la sua abilità diplomatica?
“Pensate alla sfarzosa corte viennese del Seicento: tutti nobili ostili a chi non fosse stato di sangue blu. Prima le farneticazioni di questo frate, Marco d'Aviano. Poi l’arrivo del re polacco, Jan III Sobieski, privo di origini aristocratiche, diventato re per meriti militari (per loro, uno zotico). Ci fu una rivolta dei principi di Sassonia, di Baviera, di Leopoldo stesso. Nessuno lo voleva al comando dell’esercito della Lega Santa... Fu Marco d’Aviano a tessere pazientemente la tela diplomatica, convinto che Sobieski soltanto, forte della sua esperienza militare sul campo, avrebbe potuto sconfiggere l’esercito ottomano di Karà Mustafà, nettamente superiore per forze”.
Insomma, Marco vide giusto…
“Sobieski vinse facendo proprio quello che Karà Mustafà riteneva impossibile. Nella piovosa notte della vigilia, con i suoi compì un’impresa epica scavalcando il monte Kahlemberg: 62 cannoni e circa diecimila cavalieri scalarono nel fango i 600 metri d’altitudine, per poi attaccare il mattino successivo da posizioni di vantaggio lo schieramento ottomano. Soltanto l’accampamento di Karà Mustafà si sviluppava per circa due chilometri e mezzo: le retrovie dalla parte del Kalemberg erano state lasciate scoperte perché ritenute inattaccabili. Mustafà non volle dar retta agli ammonimenti dei suoi alleati tartari i quali, vista la mala parata, a quel punto lo abbandonarono. Sotto il devastante attacco degli Ussari alati, la più temibile e pesante cavalleria scelta dell’epoca, i turchi prima sbandarono e poi si ritirarono, in ritta".
Non tutti gli storici, però, concordano con questa
ricostruzione dei fatti.
“La missione
di Karà Mustafà era quella di conquistare la mela d’oro, cioè Vienna. Dopo
avrebbe marciato con le truppe su Roma: ‘Per far abbeverare il mio cavallo in
piazza San Pietro’, le sue precise parole. L’obiettivo, insomma, era il cuore
della cristianità. Altro che storie. L’idea era quella di trasformare la
basilica di San Pietro in una moschea,
così come era già accaduto a Bisanzio con Santa Sofia. Ecco perché sono rimasto
molto sorpreso dal libro di Franco Cardini, che ho letto, in cui si sostiene
che le truppe di Mustafà avrebbero dovuto conquistare solo una roccaforte sul
Danubio e fu invece per iniziativa personale che il Gran Visir disobbedì agli
ordini del Sultano. Ma quando mai… Nella rigida gerarchia ottomana del Topkapi
non sarebbe stata assolutamente possibile una simile presa di posizione. Così
la pensa anche Valerio Massimo Manfredi, che ha scritto con me la
sceneggiatura. E del nostro stesso avviso è Paolo Mieli, espressosi in tal
senso in un articolo del settembre del 2009. Cardini e gli storici musulmani
sostengono una versione politically correct , che addossa a un individuo
responsabilità più ampie, pensando così di favorire il dialogo tra cristiani e
musulmani. Ma io credo che solo sulla verità si possa costruire”.
E la storia del frate guerrafondaio? E’ per questo
pregiudizio che la figura di Marco d'Aviano è così misconosciuta?
“Certo,
è un frate scomodo. Se lo si decontestualizza dal suo tempo, se ne dà un’idea
sbagliata. Ma è stupido giudicare la figura di Marco e il suo operato coi
parametri di oggi. Bisogna avere ben presente la temperie socio-politica e
culturale dell’epoca. Appare allora possibile e giusto che un sacerdote predicasse
la guerra e si mettesse alla testa di una Lega Santa per contrastare un attacco
che sarebbe stato micidiale per il futuro della Cristianità… Ed è naturale che,
durante la battaglia, Marco fosse in
cima al monte Kahlemberg e col crocifisso in mano incitasse i guerrieri
cristiani. Non perché fosse un sanguinario, ma solo perché era ben consapevole
di quanto quello scontro fosse esiziale per la cristianità. Non tener conto del
contesto dell’epoca è un errore di prospettiva che non dobbiamo commettere. A questo
proposito, vorrei citare un bellissimo proverbio arabo: “Gli uomini somigliano
più al loro tempo che ai loro padri”. Oggi viviamo un tempo di dialogo e
apertura fra le diverse religioni, allora non era così. Marco da Aviano fu solo
uno strumento del suo tempo. Anzi, direi uno strumento della Provvidenza”.
Altre critiche sono rivolte al film per quanto concerne i
costi. Nino Rizzo Nervo, ex consigliere Rai all’epoca dell’approvazione del
progetto, dice che per l’azienda di
viale Mazzini si tratta di un film inutile e costoso…
“Convincere
la Rai è stata dura, perché c’era ostilità da parte di qualche settore
dell’azienda. Alla fine ce l’ho fatta: viale Mazzini ha garantito 4 milioni di
euro su 10, gli altri 6 li ho trovati io tra privati. Quando perciò il
consigliere Nino Rizzo Nervo dice che si tratta, per la Rai, di un film inutile
e costoso dice una sciocchezza. Sul fatto che sia inutile, discutiamo: non è
che Rizzo Nervo possa decidere quali storie io reputi giusto raccontare. Sul
costoso dice una palese falsità, perché
con quei soldi l’azienda si è garantita la distribuzione nelle sale di un film
di lungometraggio e successivamente la messa in onda di due puntate da cento
minuti. E di alta qualità, certo superiore ai loro prodotti medi. Inoltre, 4 milioni
di euro è proprio il budget previsto dall’azienda per due prime serate di
fiction: quelle su Modugno, ad esempio, sono costate 4,9 milioni di euro.
Insomma, direi che sono critiche prevenute. Perfino la Direzione del Ministero
per i Beni Culturali ha riconosciuto il valore storico del film accordando un
finanziamento”.
E quale sarebbe la ragione
di tanto astio nei suoi confronti?
“Dopo
il flop di Barbarossa , si pretende di affibbiarmi un’etichetta politica:
Martinelli è il regista della Lega. Niente di più falso. C’è chi mira ad
allontanare l’attenzione dal fatto storico e dall’alto valore culturale della
figura di Marco d’Aviano. Pensare che se s’interrogano dieci leghisti chiedendo
loro chi fosse quel frate, nessuno ne conosce il nome. Questa maledizione del
“Barbarossa” mi ci vorrà un po’ per scrollarmela di dosso”.
Sbagliò, come amico personale di Bossi, a farsi
strumentalizzare?
“E’
stata una scommessa persa. Anche se nel mondo resta il film della Rai più
venduto, con quasi un milione e mezzo di euro di fatturato. All’estero, è stato
visto come un film epico, senza controindicazioni politiche, con un grande
protagonista come Rutger Hauer. Certo, col senno di poi sono bravi tutti. Resta
il fatto che la mia scelta si è rivelata un errore. Anche se, prima
dell’uscita, la Rai ci credeva. Il ragionamento era banale: allora c’erano 6
milioni di elettori leghisti, se uno su quattro fosse andato a vedere il film,
l’incasso era assicurato. Non si è però tenuto conto del fatto che il pubblico
leghista è genuinamente ignorante, non va al cinema. Ai veneti e ai piemontesi,
poi, di Alberto da Giussano non frega nulla… E gli avversari politici hanno
bollato Barbarossa senza neppure vederlo. Per me resta un buon film.
Anche se è vero che oggi, se me lo chiedessero, non lo rifarei”.
Rievocare ciò mentre si predica il dialogo interreligioso è provocatorio?
“Credo di essere uno dei pochi, in Occidente, ad aver letto tutto il
Corano. Facendo anche molta fatica. Ebbene, c’è scritto tutto e il
contrario di tutto. A cominciare dalle sure sulla fede: ci sono quelle
che invitano alla tolleranza e altre che, invece, incitano all’uccisione
degli infedeli. Stessa cosa per quanto riguarda la donna. In fondo, si
tratta di un testo composito, forse ancor più della Bibbia. Qual è il
guaio di questa cultura e di questa religione? Trent’anni dopo la
battaglia di Vienna nasce il filosofo Mohammed Bin Wahabi, fondatore del
Wahabismo, che è ancor oggi la religione di stato in Arabia Saudita. E
lui cosa fa? Restituisce dignità alla grande Umma: l’Islam sarà comunque
la soluzione perché il mondo intero diventerà musulmano. Inoltre il
Corano è “increato” : è sceso direttamente da Dio su Maometto. Da una
parte così ridà dignità e orgoglio alla grande nazione sconfitta, ma
dall’altra l’incatena perché nel momento in cui asserisci che il Corano
discende direttamente da Dio, qualsiasi esegesi critica porta
all’eresia. Insomma, ciò che fu scritto nel 622 d.C. non può essere
storicizzato o contestualizzato (così come avvenuto col Vangelo i cui
valori cristiani sono stati modellati attraverso i secoli). Ancora oggi,
nel Corano c’è scritto che per la “shaarìa” occorre la testimonianza di
due donne per pareggiare quella di un uomo. Questo è il dramma e il
limite: chiunque, povero disgraziato, cerchi di dare un’interpretazione
moderna del Corano, immediatamente viene accusato di apostasia. Questa
cosa ha funzionato finché la cultura islamica è stata impermeabile”.
La situazione sta cambiando?
“Realtà diverse da quella musulmana sono oggi conoscibili da chiunque e
ovunque, grazie a Internet o a Facebook. La rete non sopporta limiti ed
ecco che cominciano a venir fuori le prime crepe. La cosiddetta
“primavera araba” da dov’è che nasce? L’errore che noi occidentali
commettiamo è quello di pensare al mondo musulmano come a un’unica
galassia compatta. Non è così. I Sunniti sono la maggioranza e
rifacendosi agli insegnamenti di Maometto non sono dei fondamentalisti.
Gli Sciiti, al contrario, sono seguaci del genero di Maometto e oltre ai
soliti cinque pilastri della fede islamica santificano la “jihad”
giustificando il martirio: sono perciò estremisti. Poi ci sono i
Salafiti, che si rifanno direttamente alle origini del Corano e perciò
non ammettono alcuna variazione. I Wahabiti sono, se possibile, ancora
più intransigenti. Lo dico senza alcun velleitarismo: oggi qualsiasi
musulmano medio è intimamente convinto che, prima o poi, il mondo sarà
interamente islamico. Per loro l’Islam è la soluzione a ogni problema.
Ma poi gran parte dei musulmani attende fatalisticamente l’avvento
dell’Islam, mentre c’è una minoranza che tenta d’imporlo con la forza”.
A suo parere, è perciò impossibile il dialogo tra cristiani e musulmani?
“La mia speranza è riposta nelle donne. Quando la donna musulmana
prenderà coscienza di sé, del suo ruolo nella società, nell’economia e
poi nella religione allora per la cultura musulmana giungerà il momento
di fare i conti. Basta vedere, per esempio, ciò che sta accadendo a
Teheran e più in generale in Iran. Con le tecnologie moderne sempre più
potenti e invasive, a cominciare da Internet, l’impermeabilità del mondo
musulmano è andata via via sfaldandosi. Prima o poi dovranno fare i
conti con questo travaso di valori tra Occidente e Oriente. Comunque,
per noi cristiani il vero problema restiamo noi stessi, è la debolezza
della nostra fede”.
Non le sembra di metterla giù un po’ troppo dura?
“Se si pensa che siamo stati capaci di scrivere una Costituzione
europea, formata da 90 mila parole, senza mai citare neppure una volta
l’aggettivo cristiano… E’ una cosa che trovo gravissima. Ma come si fa a
parlare d’Europa senza citare il Cristianesimo? Senza Cristo non
avremmo avuto la musica, la scultura, la pittura, il Rinascimento. E poi
il rispetto per l’altro, il rispetto per la donna. Nulla di nulla. Non è
possibile rinnegare quella che è la nostra storia. E il mondo cristiano
di oggi, con la sua debolezza, ha forti responsabilità per questa
incredibile omissione. Recuperare i valori cristiani non significa però
essere anti musulmani, solo essere consapevoli delle proprie radici e
dei propri ideali. Il rispetto è tale solo quando è reciproco”.
Maurizio Turrioni
Yahya Pallavicini è imam e vicepresidente della Co.Re.Is (Comunità religiosa islamica) a Milano. Qualche tempo fa ha avuto occasione di vedere 11 settembre 1683 in anteprima. «Sono stato invitato a un proiezione riservata a Roma, da parte di Raicinema che, prima di distribuirlo, ha avuto lo scrupolo di verificare che i contenuti e l'impostazione del film non offendessero la sensibilità dei credenti in generale, sia musulmani che cristiani, invitando vari osservatori». La Co.re.is. opera attraverso la sede di Milano e dieci sedi periferiche in sette regioni, riunisce i cittadini italiani musulmani ed è particolarmente
impegnata nella promozione del dialogo interreligioso e nella
sensibilizzazione dell'opinione pubblica sulla compatibilità tra
identità italiana e fede islamica.
Quale giudizio ha formulato dopo la visione del film?
«Ne ho riportato due impressioni apparentemente in conflitto. In primo luogo, lo scrupolo di Raicinema può avere un senso: il film, infatti, potrebbe generare sul grande pubblico - che giustamente non ha competenze sui fatti storici o sulle sensiblilità spirituali di quell'epoca - una serie di ricadute emotive negative, la rinascita di slogan tipo "mamma li turchi" e un'accentuazione di alcune psicosi islamofobe. Purtroppo questo è un pericolo latente dovuto, devo ammetterlo, alla scarsa conoscenza del grande pubblico italiano su certi avvenimenti. In questo senso non possiamo escludere che un certa dose di scarsa preparazione e di emotività possa degenerare in qualche reazione istintiva e nel rafforzamento del pregiudizio nei confronti dei musulmani».
E la seconda impressione?
«Io ho studiato un po' i fatti dell'epoca e i personaggi di quel tempo. E, personalmente, sono molto interessato a una certa integrità degli uomini religiosi. Pertanto, ho trovato che la figura del frate, Marco da Aviano, è emblematica di una persona devota a Dio e rappresenta un modello universale interessante per ogni credente, anche musulmano. Inoltre, ho notato che nel film c'è una ricerca interessante di simmetria tra i saggi, i santi, le persone oneste, i religiosi da entrambe le parti - cristiana e musulmana - e sempre da una parte e dall'altra tra le frivolezze e le stupidità dei cortigiani. In altre parole, si cerca di mettere in evidenza che la corte viennese con l'imperatore viziato e la sorella frivola fanno parte di una decadenza dell'Occidente che aveva perso qualunque riferimento al cristianesimo. Ricordo una scena: quando il frate viene invitato a un ricevimento, lui rifiuta di sedersi alla tavola per una incompatibilità tra il suo voto di povertà e i banchetti della corte. La stessa cosa si trova nel mondo musulmano: anche nel califfato turco, come viene rappresentato, ci sono persone profondamente integre e altre negative. E sono queste ultime che poi hanno scatenato la cruenta battaglia. Vienna per fortuna è stata poi salvaguardata - lo dico da musulmano europeo -, ma quello che gli spettatori dovrebbero cogliere è che i conflitti portano soltanto miseria e il richiamo degli uomini di Dio, da una parte e dall'altra, purtroppo viene rifiutato dai governanti. Ma ho paura che questo messaggio non sarà colto dal pubblico».
Il sottotitolo del film fa un esplicito richiamo alla data fatidica dell'11 settembre....
«Il sottotitolo è molto d'effetto, inquietante: si pensa subito all'11 settembre 2001 e allora si arriva direttamente all'idea che la storia si ripete e che, di conseguenza, ci possa essere nel prossimo futuro un nuovo 11 settembre. Mi sarebbe piaciuto molto di più il titolo che avevano scelto in origine: Marco d'Aviano , il nome del frate. I testimoni della dimensione santa a me piacciono molto e avrei preferito che fosse messa in evidenza questa figura già nel titolo. Invece, si è persa l'occasione per mettere in risalto cosa c'è di buono nel film».
Lei di recente ha incontrato papa Francesco.
«Ho avuto l'onore di vivere i segnali non cinematografici ma reali del progresso del dialogo. Sono stato presente, per la prima volta nella mia vita, alla cerimonia di intronizzazione del papa e sono rimasto molto colpito da questo momento sacrale di investitura di un uomo che deve incarnare il ruolo di vicario di Gesù. Il giorno dopo ho partecipato all'udienza concessa a varie rappresentanze religiose, ho avuto modo di salutarlo, auspicando che il mondo interiore possa ispirare la forza della fede di cristiani e musulmani alla luce delle complesse sfide intellettuali che stiamo vivendo. Devo dire che il Papa mi ha risposto dicendo che è un tema molto importante e che dobbiamo tutti pregare per questo. Papa Bergoglio è un modello di uomo di Dio che interpreta la povertà in forma non demagogica. E poi, la scelta del nome Francesco: rievoca i rapporti straordinari del santo di Assisi con il mondo islamico. Ho avuto occasione di conoscere anche i due precedenti papi, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI: il rischio delle ripercussioni del film è che si vada in direzione diametralmente opposta rispetto a quella tracciata dagli ultimi tre Pontefici in fatto di dialogo interreligioso».
Giulia Cerqueti
Professor Cardini, dopo l’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001 il regista Renzo Martinelli rimase colpito dalla corrispondenza storica tra quella data e quella dell’assedio di Vienna (11 settembre 1683). E anche lei, proprio in occasione di quel tragico 11 settembre, pensò di uscire con un instant book sull’argomento che si trasformò poi in un corposo saggio Il turco a Vienna (Laterza) uscito l’anno scorso…
«In realtà fu all’alba del 12 settembre del 1683 che iniziò la battaglia per la liberazione di Vienna, mentre il giorno prima, l’11 settembre, ci fu l’avvicinamento delle truppe polacche e imperiali che dalle colline a Nord di Vienna calarono sull’accampamento turco».
Cosa pensa del tema scelto da Martinelli?
«Ho conosciuto e apprezzato Martinelli come regista del film Vajont , un po’ meno per Barbarossa , opera che mi è spiaciuta per alcune inesattezze storiche. La scenggiatura è stato scritta da Valerio Massimo Manfredi che è uno scrittore affidabile dal punto di vista della storia. In autunno ne discuteremo a Varsavia… non nascondo però che, pur non avendolo ancora visto, ho qualche riserva sull’aspetto ideologico del film, temo che faccia vedere il turco come invasore e fondamentalista».
Marco d’Aviano, il frate cappuccino beatificato da Giovanni Paolo II è stato una figura religiosa di grande spicco, protagonista della salvezza di Vienna.
«Marco d’Aviano nell’assedio ha svolto un ruolo importante, ma che non è immediatamente visibile: il ruolo del predicatore, l’uomo di fiducia dell’imperatore Leopoldo II d’Asburgo e suo confessore personale».
È stata l’ultima crociata dell’Occidente?
«No, l’ultima bolla sull’indulgenza legata ad una guerra è stata emessa da papa Benedetto XV in occasione delle guerre balcaniche: ciò significa che per i cattolici che combattono in una guerra giusta è prevista l’indulgenza plenaria in caso di morte. La dottrina cattolica considera guerra giusta quella di difesa, indetta da un principe legittimamente riconosciuto».
Fu una guerra giusta Vienna?
«Sì. Difensiva e proclamata da un principe legittimo, l’imperatore Lepoldo I d’Austria. Nel diritto canonico le condizioni perché il cristiano partecipi a una guerra è che essa sia giusta, mentre se al di fuori delle azioni militari un soldato compie un atto riprovevole, sia esso un furto o una violenza fuori dal campo di battaglia egli commette un gravissimo peccato mortale. Ma la stessa cosa vale per un musulmano: si consideri jihad (letteralmente "esercitare il massimo sforzo", ndr. ) qualunque sforzo gradito a Dio, quindi se un medico musulmano muore per una malattia contagiosa e quell’impegno missionario è considerato da un mullah (leader religioso musulmano, ndr. ) jihad, quell’uomo è shaid (martire)».
Il sogno dei turchi era davvero di invadere l’Europa? Possiamo dire che
Marco d’Aviano e il principe poacco Jan Sobienski la salvarono?
«Salvarono Vienna, pensando legittimamente che, in caso di conquista
della città da parte turca, i rapporti di forza dell’Occidente con
l’Impero ottomano sarebbero cambiati: ma Vienna non avrebbe potuto
costituire una testa di ponte per un attacco all’Europa. Karà Mustafà
parte da Istanbul con un esercito di 300 mila uomini, di cui solo una
metà combattenti. L’altra metà garantiva i servizi: gli ottomani
mangiano carne fresca tutti i giorni, quindi si portano appresso greggi e
animali da cortile; si fermano poi tutte le notti in accampamenti in
cui sono previsti persino le saune (bagno turco): così non scoppiano
epidemie, l’alimentazione è ricca, l’esercito non subisce dissenteria,
scabbia e rogna; un accampamento turco odora di zuppa di riso, cipolla e
montone e spezie, non così un accampamento occidentale. I turchi in
genere non insidiano le popolazione locali, perché hanno da mangiare,
sono disciplinati; possono uccidere, impalare, violentare ma non lo
fanno ordinariamente».
Pure arrivarono stremati dopo il viaggio nell’inverno 1682-83 e due mesi
d’assedio, dal 14 luglio al 12 settembre…
«Fa specie pensare che il gran visir sia partito con l’idea avallata
dal sultano di conquistare Vienna. Se volevano davvero assediare una
capitale molto a Nord come Vienna, perché affrontare una traversata di
tre mesi in terreni umidi come la pianura balcanico-danubiana che nelle
mezze stagioni diventano acquitrini dove i cannoni affondano e
l’esercito si ammala di malattie polmonari?».
L’esercito ottomano contava sul fattore sorpresa?
«L’impero turco arrivava all’Ungheria, Croazia Slovacchia e Boemia;
avrebbero potuto attestarsi a Nord di Buda (l’attuale Budapest) e poi
spostarsi di lì… Perché arrivare da così lontano? L’attenzione
dell’Europa l’avevano già richiamata comunque: in tutto il mondo
cristiano si sapeva di questa grosso esercito in movimento verso Nord e
ci si chiedeva il perché. Gli ambasciatori imperiale e veneziani a
Istanbul non potevano non sapere. Con 150.000 combattenti e un reparto
leggero di artiglieria di campagna puoi al massimo attestarti a Vienna:
lo scopo immediato non poteva essere quello di invadere la cristianità,
ma solo di fare propaganda».
Quali erano le mire espansionistiche dell’impero ottomano in quegli
anni?
«È evidente che siamo in un periodo di forte spinta aggressiva ed
espansiva nei confronti dell’Europa: l’impero ottomano è una potenza
politico militare che vuole espandersi per mare nei paesi affacciati sul
Mediterraneo e per terra nei Balcani fino ai confini con lo stato di
Venezia. Ma il sultano deve decidere quale fronte attaccare, terrestre o
navale. Così fu la guerra di Cipro all’interno di cui c’è Lepanto;
oppure per terra ed ecco Belgrado, Budapest, Vienna. Ma il sultano non
teme l’Occidente, il suo vero nemico è la Persia verso cui deve
difendersi e non può espandersi».
Che fine fece Karà Mustafà?
«Guidò molto bene la ritirata da Vienna, ma poi morì strangolato per
ordine del sultano a Buda il giorno di Natale del 1683».
Cosa succede dopo la vittoria di Vienna?
«Vienna rappresenta il momento di massima espansione dell’impero
ottomano, poi l’Europa riconquista Buda nel 1686 (dopo aver fallito nel
1684) e Marco d’Aviano è presente; la linea di confine si attesta poi
intorno alla città di Belgrado, presa, persa e poi definitivamente
liberata nel Settecento».
Quali sono i rapporto di forza in Occidente rispetto all’impero
ottomano?
«Il sultano sa che deve stare attento alle reazione dell’Occidente, in
cui vale il principio della scacchiera, non della solidarietà religiosa…
Il sultano può contare sul re di Francia che ha gli stessi suoi nemici:
Spagna, Italia, Germania, stati federali e principati cattolici. Il re
francese Luigi XIV, che insidia la frontiere tedesca e occupa
Strasburgo, da un lato fomenta i turchi e dall’altro accusa l’imperatore
di non respingerli, perché vuole che l’imperatore difenda i Balcani e
abbandoni le pretese sul confine con la Francia».
San Pio X ha reso universali due icone mariane, due feste e due santuari
legati a due vittorie della cristianità contro i turchi estendendole a
tutta la Chiesa universale: la festa del Nome di Maria il 12 settembre
per celebrare la vittoria di Vienna (Madonna di Loreto) e il 7 ottobre
per la vittoria di Lepanto (Madonna del Rosario di Pompei). Che
significato ha questa duplice consacrazione?
«Lepanto e Vienna sono due feste europee e cristiane, di una certa
Europa e di una certa cristianità, veneziana e asburgica. Pio X le
istituisce nel 1913 e ha un senso: ci sono le guerre balcaniche, ci sono
delle forti tensioni, nasce il pericolo laicista e modernista, il papa è
prigioniero in Vaticano; così un papa veneto, che è diventato tale
anche grazie all’imperatore Francesco Giuseppe che ha esercitato il suo
diritto di veto bloccando il cardinal Rampolla più aperto al movimento
modernista, noto per essere filo francese mentre Pio X è un veneto ed è
filo austriaco: non a caso istituisce due feste che celebrano due
vittorie contro i turchi».
Alfredo Tradigo
«Consigliabile/problematico/adatto per dibattiti», questo, in estrema sintesi, il giudizio su 11 settembre 1683 , l’ultimo film di Renzo Martinelli da parte della Commissione nazionale valutazione film della Cei. «Dal punto di vista cinematografico», afferma Massimo Giraldi, segretario della commissione incaricata di offrire una valutazione pastorale su ogni pellicola, «il film non è impeccabile ma offre diversi spunti di riflessione, a cominciare dal tema dell’incontro-scontro fra culture e religioni diverse, e soprattutto racconta un avvenimento storico cruciale per la storia d’Europa anche se dimenticato».
Siamo a Vienna: dopo due mesi d’assedio il Gran Visir Kara Mustafa, alla testa di un esercito di trecentomila uomini, vuole conquistare il cuore dell’Europa, la “mela d’oro”, e da lì muovere verso la culla della cristianità, Roma. A sbarrargli la strada, però, c’è un frate cappuccino friulano, Marco d’Aviano, al secolo Carlo Domenico Cristofori, che convince papa Innocenzo XI, i principi e l’imperatore d’Austria Leopoldo I a lasciare il comando dei loro eserciti al re di Polonia Jan III Sobieski la cui cavalleria si rivelerà decisiva per far vincere la battaglia alla Lega Santa e sventare le mire espansionistiche ottomane.
Il film racconta la battaglia di Vienna attraverso lo sguardo ardimentoso e profondamente spirituale di Marco d’Aviano, predicatore nelle corti d’Europa, taumaturgo, consigliere di Leopoldo I e artefice della Lega Santa. «Contemplativo itinerante e profeta disarmato della misericordia divina», lo descriverà Giovanni Paolo II che lo ha proclamato beato il 27 aprile 2003. E che a questa guerra si attribuisse un significato religioso lo dimostra il fatto che papa Innocenzo XI proclamò il 12 settembre la festa del Santissimo Nome di Maria, alla cui intercessione era da attribuire la vittoria delle truppe cristiane.
Oltre a narrare ciò che è accaduto, il film inevitabilmente vuole riflettere sul rapporto tra Islam e Cristianesimo. Da questo punto di vista la convince?
«È sempre rischioso e difficile raccontare un evento storico con lo sguardo e la sensibilità dell’oggi. Nel film, ad un certo punto, c’è un dibattito serrato tra Marco d’Aviano e Kara Mustafa (Enrico Lo Verso) che appare un po’ forzato. Entrambi usano toni molto forti e marcati per delineare, ognuno, la propria identità religiosa. Toni, peraltro, estranei alla sensibilità attuale. Se allora c’era crudezza allora bisogna ribadire, e questo il film lo fa, che oggi bisogna proseguire più che mai sulla strada del dialogo con l’Islam e lasciare da parte le guerre».
Teme polemiche dal mondo islamico?
«Sinceramente no. Se poi uno vuole vederci chissà cosa e alimentare
conflitti a tutti i costi è un altro discorso. Paradossalmente, questa
pellicola può aiutare a capire più noi stessi come europei e indicare su
quali basi e perché l’Europa oggi debba stare unita non solo dal punto
di vista economico ma anche spirituale e culturale».
Dal film emerge abbastanza divisa.
«E questo è un aggancio molto forte alla situazione attuale. Di fronte
alla minaccia militare islamica i sovrani europei, tutti accomunati da
una profonda identità cristiana, non riuscirono ad organizzarsi
risultando inconcludenti e poco reattivi. Qui si staglia la grande
figura di Marco d’Aviano, un umile mistico che riuscì a tenere la barra
dritta. Non dobbiamo dimenticare che all’epoca la guerra era considerata
lo strumento principale per risolvere i conflitti internazionali. Il
rifiuto delle armi è un’acquisizione piuttosto recente».
Il film “sdogana” le guerre di religione?
«Fa l’esatto contrario. La scena finale, che idealmente si ricollega al
precedente faccia a faccia tra il frate e Kara Mustafa, mostrando la
disperazione del primo, chino sul campo di battaglia pieno di cadaveri, e
il condottiero musulmano, sconfitto, che muore strangolato, lancia un
messaggio molto chiaro sull’assurdità e l’insensatezza di tutte le
guerre, a cominciare da quelle religiose. Il regista Martinelli
ricostruisce quegli eventi per dire che non devono accadere più in
futuro».
Antonio Sanfrancesco
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