Chiara Lubich ripeteva spesso una frase: «Che tutti siano uno», ed è lo slogan che si costruisce nella mente e nei cuori dopo aver assistito ad un concerto del Gen Rosso, la band nata proprio da un’ispirazione della fondatrice e prima presidente del Movimento dei focolari.
Era il Natale del 1966 quando Chiara Lubich nella cittadella di Loppiano, sulle colline di Incisa Valdarno, regalò una chitarra e una batteria rossa (da qui il nome Gen Rosso) ad un gruppo di ragazzi per comunicare attraverso la musica messaggi di pace e fratellanza universale. E nel corso degli anni seguendo la strada del pop rock, ma con stili musicali diversi, perché i componenti provengono da tutto il mondo, hanno messo a disposizione la loro arte per veicolare il messaggio della costruzione di un mondo più giusto, solidale, e vivibile. All’attivo hanno 2000 concerti e spettacoli e oltre 400 canzoni, di cui tantissime sono quelle che hanno fatto la storia della band in una fusione di emozioni e rinnovata freschezza nonostante gli oltre 50 anni ormai di storia.
Resta qui con noi è la canzone più conosciuta del Gen Rosso, la cantiamo in tanti ma poi come umanità si pensa a delimitare i confini territoriali senza arrivare ai confini del cuore. Voi che siete di nazionalità diverse come vivete questo tempo in cui si chiudono porti, si alzano muri e non si aprono i cuori agli altri?
«Noi facciamo parte del movimento dei focolari e il Gen Rosso nasce da un’ispirazione di Chiara Lubich che ci ha insegnato che nel mondo si è cercata l’uguaglianza, la libertà, e non sempre con grandi esiti, ma quello che più che mai manca, ancora oggi, è la fraternità. Allora noi giorno dopo giorno proviamo ad allenarci affinché sia la fraternità la risposta a tutte queste chiusure, a tutti questi confini che non fanno altro che peggiorare le situazioni che viviamo e quindi anche noi con la nostra vita e le nostre canzoni vogliamo testimoniare questa fraternità che è possibile. Noi arriviamo dalla Spagna, Brasile, Italia e Filippine, e ogni giorno proviamo a vivere la fraternità e sperimentiamo che è possibile».
L’ultimo Genfest - che è il raduno di giovani di diverse etnie, culture e religioni, che vogliono mostrare al mondo che la fraternità universale è un ideale per cui vale la pena vivere, nato nel 1973, sempre da un’idea di Chiara - lo avete vissuto a Manila, in quell’Asia che parla al mondo di speranza e di voglia di cambiamento, nonostante i tanti problemi e il divario socio-economico. Ma i valori che cantate accomunano tutti i giovani del mondo?
«Noi siamo stati in tante zone di confine ma abbiamo visto che i giovani sono gli stessi ovunque, sia in Asia, in Europa, in America. Tutti, anche i giovani di popoli martoriati, in difficoltà o dimenticati a volte, hanno sete di giustizia e di grandi ideali, è il pubblico adulto che si differenzia spesso».
Quindi quando cantate di quell’umanità “che ancora sa arrossire, sa abbassare gli occhi e sa scusare” vi riferite a quegli adulti che hanno dimenticato la forza del perdono?
«Esatto, è proprio così. Spesso dicono che i giovani saranno il futuro della società, noi pensiamo che invece siano il presente. È sbagliato delegare a un tempo futuro perché adesso bisogna ascoltarli e dare fiducia».
Che poi è “il senso del tempo, il tempo dell’unità”, quello che cantate in una vostra hit?
«Il tempo è adesso. Chiara Lubich ce lo ha sempre detto e sembra paradossale ma nonostante tutto quello che accade, il mondo tende all’unità. Anche gli sviluppi della comunicazione che è avvenuta negli anni hanno la tendenza all’unità, solo che in questa globalità bisogna metterci la fraternità, l’amore».
Ve lo ha detto anche Papa Francesco in visita a Loppiano nel 2018, cosa ha rappresentato per voi quel giorno?
«Il Papa era lì con noi e ci ha esortato ad essere più concreti, più radicali, senza nascondersi, però eravamo contentissimi anche perché era un sogno di Michele (componente italiano di Salerno) cantare davanti al Papa e farlo a Loppiano che è la nostra casa e con Madre dolcissima, una canzone dedicata Maria, l’emozione si è centuplicata».
Che rapporto avete con Maria?
«È una grandissima sfida, perché Chiara Lubich ci ha sempre detto che è nostro dovere essere come Maria, quindi è una lotta quotidiana cercare di imitarla per essere come lei, per essere come quella donna che ha sempre detto di sì alla volontà di Dio anche quando le cose non sono come uno le spera. È la nostra madre, il modello da imitare».
Maria che pronuncia “le parole che non dice più nessuno” nonostante il suo silenzio. Quali sono per voi queste parole?
«Dialogo, accoglienza, fraternità e amore, senza mai arrendersi».
In Semina la pace voi cantate tutto questo ma anche le spine, che equazione c’è fra paura e fiducia?
«Qualsiasi cambiamento, qualsiasi metamorfosi non avvenga senza un patire, senza una sofferenza. Noi un giorno abbiamo deciso di dare tutto a Dio e quindi la sofferenza non ci spaventa. “Spine fra le mani piangerai, ma un mondo nuovo nascerà”. È proprio così, perché nella nostra vita dobbiamo imparare ad accettare le sfide, ad accettare i dolori perché accettandoli, trasformandoli poi questi diventano qualcos’altro, diventano luce, diventano una forza e noi in questo ci crediamo, anche negli oltre 50 anni di vita del Gen Rosso è stato cos»ì.
Come band avete infatti festeggiato i 53 anni di vita, ma nonostante ci sia un ricambio fra i componenti c’è sempre la bellezza del Gen Rosso vivo. Con altre band siamo abituati alle reniun, perché quando cambia una voce spesso non si riconosce più l’identità, con voi non è mai stato così: qual è il segreto di entrare nel gruppo, farlo vostro e continuare la storia?
«Il Gen Rosso ha un carisma: è un gruppo di Dio, quindi è Dio che rimane negli anni. Poi chi è passato nel Gen Rosso, almeno negli ultimi anni, ha donato tutto a Dio e questo fa la differenza e infine per essere Gen Rosso non basta soltanto il dono del canto e della musica, serve qualcos’altro».
Che cosa?
«Saper amare. Tutti. E donarsi, come Maria. Perché anche la pace comincia qui, adesso, comincia da ciascuno di noi, ma bisogna essere pronti a dare tutto, ad offrire tutto ed è possibile, è possibile perché abbiamo visto miracoli ogni volta che abbiamo provato a dare tutto».