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lunedì 24 marzo 2025
 
Raffaella Carrà
 

Raffaella Carrà, l'icona con l'anima

05/07/2023  Due anni fa moriva Raffaella Carrà. Ebbe un'enorme popolarità, ma nonostante questo non si rendeva conto della sua forza mediatica. Schivava la mondanità e dietro la donna di spettacolo c’era una persona che serviva a mensa i poveri. Il ritratto di Luciano Regolo.

«Me la sono giocata. A volte ho pagato un prezzo e altre mi è andata bene, ma non posso dire di non essermi divertita». Così Raffaella Carrà, all’anagrafe Raffaella Maria Roberta Pelloni, con la tipica, ironica schiettezza, descriveva la sua insolita vita. Spentasi il 5 luglio 2021, per il male che l’aveva colpita ai polmoni, avrebbe compiuto 80 anni questo 18 giugno. L’omaggio, come si deve a figure come la sua che hanno lasciato una traccia per sempre, varca i confini dell’Italia e a Madrid, in Spagna, terra dove sbancò, come pure in America latina, per il suo compleanno viene presentato alla stampa internazionale Bailo Bailo, il musical prodotto da Valeria Arzenton con i suoi pezzi “mitici”, tratto dal film diretto da Nacho Álvarez. Di certo lei si sarebbe stupita del clamore, come quando, prima di affrontare una folla di giornalisti per il lancio di un nuovo programma tv, chiese meravigliata a Laura Fattore, sua storica ufficio stampa: «Ma sono venuti tutti qui per me?».

Perché “Raffa” ha mantenuto sempre una sorta di stupore, quasi infantile, di fronte al suo vertiginoso successo (60 milioni di dischi venduti), quasi non si rendesse conto della trascinante forza mediatica che irradiava. Amava le cose semplici, la quotidianità «normale», le poche ma buone amicizie, schivando la mondanità, la sovraesposizione, la fabbrica del gossip e altre leve che tante star del piccolo e grande schermo muovono con sapiente cinismo. Nella memoria collettiva, tuttavia, restano la sua risata particolare, ritmata, da vera emiliana, le sue danze scatenate scandite da fragorosi colpi di tamburo e il casco biondo con frangia sui grandi occhi accesi di mille impulsi. Il paradosso di Raffa è essere diventata icona (anzi più icone) suo malgrado. Simbolo di trasgressività per aver mostrato per prima l’ombelico in Tv, accanto a Corrado nella conduzione di Canzonissima, nell’ottobre 1970 (cosa allora ritenuta scandalosa), ma anche di gioia e freschezza per tanti bimbi della stessa epoca che cantavano a squarciagola le sue “sigle” (Chissà se va, Maga Maghella, Ma che musica maestro), immagine cara ai gay dopo l’uscita del suo brano Luca (1978), il primo a parlare in modo diretto e leggero di omosessualità, ma anche a tante donne, madri di famiglia, alle quali tenne compagnia con i quiz di Pronto Raffaella o con i rincontri impensabili di Carramba che sorpresa.

Nel 2020 il quotidiano britannico The Guardian, mentre impazzava la versione inglese di A far l’amore comincia tu, incorona Raffaella sex symbol europeo, definendola «l’icona culturale che ha insegnato all’Europa le gioie del sesso». Ma lei, ancora una volta stupita, minimizzava, ricordando che: «Le donne italiane hanno grande simpatia per me perché non sono una mangiauomini: si può avere sex appeal insieme a dolcezza e ironia, non bisogna per forza essere Rita Hayworth». E aggiunse: «Se mi sento libera? Non tanto, però sarei bugiarda se non dicessi che ho sempre fatto quello che mi pare». Alla fama “trasgressiva” della Carrà contribuì il Tuca Tuca, la danza audace lanciata alla seconda Canzonissima. «L’Osservatore Romano», spiegherà, «fece pressioni per stopparlo. Riuscii a riportarlo in Tv solo grazie ad Alberto Sordi, a cui nessuno diceva no, io mi vestivo, pantaloni e top corto senza nessun secondo fine; evid e n t e m e n t e , senza rendermene conto, stavo rompendo gli schemi, forse perché ballavo in modo libero, forte, comunicavo energia, non una sensualità eccessiva».

Ma dietro la Carrà iconica e la show-girl perfezionista, c’era tutta un’altra Raffaella dal cuore gentile, che riprendeva chi trinciava giudizi troppo severi sugli errori di vita altrui, che amava ringraziare personalmente i giornalisti se si riportava fedelmente il suo pensiero, che voleva attorno a sé verità ed esortava gli amici fidati a indicarle i difetti delle sue performance, che aveva imparato da piccola a vincere dolori e delusioni e a trasformarli in forza e indipendenza. Aveva appena due anni quando i genitori si separarono. Un evento che la segnò. Dirà lei stessa: «Dopo aver avuto un padre play-boy, lascio immaginare che idea mi possa essere fatta del mondo maschile». Non si sposò mai, ma era paga della sua vita sentimentale concentrata in due uniche storie importanti prima con Gianni Boncompagni e poi con Sergio Japino, se si esclude quella giovanile con Gino Stacchini, calciatore della Juve (di cui era tifosa). A 8 anni Raffaella lascia l’Emilia-Romagna per Roma, dove frequenta l’Accademia nazionale di danza fondata da Jia Ruskaja. Di lì a breve, nel 1952, l’esordio al cinema, da bimba, in Tormento del passato diretto da Mario Bonnard. Dagli inizi degli anni Settanta, il cinema, tuttavia, per lei passerà in secondo piano per concentrarsi sulla carriera di conduttrice, show-girl e cantante, che le varrà la fama internazionale.

Ma mentre mieteva trionfi, Raffaella restava sé stessa. Capace di impegnarsi, lontano dai riflettori, nella lotta contro i femminicidi (il suo appello alle donne a Milano nel 2018 torna in questi giorni di drammatica attualità: «Non andate mai all’ultimo appuntamento»), pronta a dare un senso alla mancata maternità facendo «da babbo», come diceva lei, ai figli di suo fratello Enzo, scomparso nel 2001, e non smettendo mai di adottare bimbi a distanza: «Ogni anno mi arrivano le loro foto e vederli crescere mi rende felice». C’era un altro amore che Raffaella coltivava in silenzio: poveri e dimenticati verso i quali non si limitava agli aiuti in denaro. Andava, nel più totale anonimato, a servire alle mense per gli indigenti, voleva conoscerne le strie, guardarli negli occhi, donare sorrisi e speranze. Nessuno, mentre era in vita, lo ha mai saputo

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