Il 4 maggio 1983 il Parlamento approvava la legge 184 sull’accoglienza dei minori in famiglia, con le misure dell’affido e dell’adozione. Un testo che portava a compimento il lungo e complesso percorso culturale organizzativo e giuridico di quella che veniva chiamata la “deistituzionalizzazione dei minori”. I criteri ispiratori erano “semplici”, almeno concettualmente: per proteggere adeguatamente un bambino senza famiglia (o con una famiglia disfunzionale), occorreva offrigli un’altra famiglia, che lo accogliesse al proprio interno, in via temporanea o in via definitiva. Così, in quarant’anni migliaia e migliaia di bambini sono stati accolti da nuove famiglie, da genitori che hanno aperto le proprie case a figli di altri, “non nati da loro”. Un modo originale e potente di rendere concreto quel famoso proverbio africano, secondo il quale “per educare un fanciullo serve un intero villaggio”.
Nell’affido e nell’adozione, infatti, le famiglie accoglienti diventano “risorse pubbliche”, le mani e le braccia attraverso cui si realizza la solidarietà del nostro “villaggio-Italia”, in collaborazione con i servizi pubblici, i tribunali per i minorenni, gli assistenti sociali, ecc. Insomma, una testimonianza concreta di cittadinanza attiva e di responsabilità da parte delle famiglie.
Questi quarant’anni non sono stati tutti rose e fiori, e gli stessi meccanismi operativi di affido ed adozione sono tuttora al centro di una grande riflessione, che forse chiederebbe anche una rivisitazione della stessa legge 184. Ma il dato più sfidante e rivoluzionario di questa storia rimane l’apertura della famiglia. Le famiglie che si sono aperte all’accoglienza testimoniano infatti che è la loro stessa vita che cambia in meglio se si aprono agli altri, anziché custodire gelosamente il proprio tesoretto di relazioni. Ogni volta che una famiglia si apre all’accoglienza, prima ancora che offrire aiuto a chi ha bisogno, approfondisce i propri valori e le proprie relazioni, in un processo circolare in cui più doni e più ricevi: perché – come diceva un sociologo canadese - la differenza tra il Mar Morto e il Lago di Tiberiade è proprio questa: il Mar Morte riceve l’acqua ma non la dà a nessuno, e quindi è “morto”; il Lago di Tiberiade, invece, restituisce l’acqua che riceve ad altri fiumi. E per questo vive e prospera.
Scarica il programma della giornata
*Direttore del Cisf (Centro intenazionale studi famiglia)