Le premesse sono tutte per un Giro d'Italia sciapo, con una sola città grossa, Verona l'ultimo giorno, fra i suoi traguardi e con corridori italiani dimessi, e alcuni anche dismessi seppure ancora pedalanti, con stranieri di seconda fascia ma in grado di prendersi la maglia rosa.
Si aggiunga che la partenza dall'Olanda sa di raccolta di denaro (la fa anche il Tour, da quelle parti) più che di missione sportiva e che il ritorno via aerea in Italia, con il giorno di riposo dopo tre giorni di corsa, sa di gita dopolavoristica più che di fatica da forzati della strada. Si consideri anche che l'antidoping, nel senso di mannaia, in Italia e in Francia ormai fatto sul serio, è non solo pronto a togliere di corsa i fessi che non mancano mai, ma a gettare comunque il dubbio su chiunque, tifosi compresi.
Insomma tutto si prospetta così male che, per poco che ci sia una corsa vivace, combattuta, magari con in italianotto che si riveli da classifica, i tifosi del ciclismo, che sono i più buoni e generosi e teneri e romantici bipedi del mondo, potranno anche entusiasmarsi, ubriacandosi di autarchia.
Naturalmente non sappiamo chi possa essere questo italianotto: Basso che ritorna dopo essere stato Grande Espiatore sembra avere perso la pedalata magica, Pellizzotti che poteva essere dinamitardo è stato fermato per anomalia del suo passaporto biologico, Nibali suo compagno di squadra chissà se è pronto all'impegno, Cunego e Garzelli si sono prenotati per qualche tappa, dicendo che seriamente non possono puntare al rosa finale. Poco per contrastare l'australiano Evans campione del mondo ma non ancora re di corse a tappe, il kazako Vinokourov rodatissimo, lo spagnolo Sastre che vinse il Tour del 2008 e dicono persino l'inglese Wiggins, quarto nel Tour 2009.
Per la statistica (dolente) ricordiamo gli italiani non vincono una classica dal 2008 (Cunego, il Lombardia) e una grande corsa a tappe dal 2007 (De Luca, il Giro).
Ci sono sguardi che non si dimenticano. Quello di Cadel Evans a Mendrisio 2009, per esempio: occhi celesti ridotti a due uova fritte per troppo pianto, sul podio di un Mondiale, sudato una vita da eterno secondo. Arrivò a parlare alla stampa che ancora tirava su col naso, dopo aver inondato la spalla di Chiara, la bella moglie varesina.
Sembrava uno proprio uscito da un altro ciclismo, poetico, anche se ci vuole tanta prosa per pedalare fino a 32 anni, ora va per i 33, senza quasi podi da numero uno (tappe sparse a parte) e vedersi sorpassare da un sacco di pedalatori destinati a finire come lucci nelle nasse dell’antidoping. Dopo un po’ di purgatorio li liberano ma la macchia resta e hai voglia a candeggiare (per la cronaca Basso rientra ora e Pelizzotti si è appena impigliato ora si tratta di capire se meritatamente o no). Cadel Evans invece, finora, è uscito immacolato (successo strepitoso di questi tempi) e non sarebbe male allora che fosse davvero lui, come dicono gli esperti, il favorito di questo Giro che l’organizzazione ha annunciato “senza doping” (auguri!).
Evans, australiano appassionato di Tibet, trapiantato in Canton Ticino, desidera montagne forse pensando alle sue passioni. E questo Giro 2010 senza grandi città - che parte in piano che più in piano non si può, da Amsterdam sotto il livello del mare - arriva a Verona, scendendo diretto quasi dal Gavia scalato al contrario (20° tappa), preceduto dal Mortirolo (19°) e, più indietro dallo Zoncolan preso dal versante più ostico, l’Ovaro. In mezzo la cronoscalata del Plan de Corones: si parte da San Vigilio di Marebbe, su uno sterrato “trattato” per non sfaldarsi, chissà.
A vincere Cadel, dopo la maglia iridata, ha preso gusto: quest’anno è stato primo alla Freccia vallone e non sembra imbarazzato dal pronostico. Si sa che da pignolissimo qual è ha studiato molto bene le tappe del Giro. C’era stato una volta sola, ha vestito la maglia rosa a Corvara, per poi finire risucchiato in un giorno. A contendergliela stavolta non c’è Contador, il più forte a tappe negli ultimi anni. Approfittarne sarebbe un bel modo coronare una carriera con arrivo in salita.
Sarà che la fatica ispira i poeti, sarà che certi pentagrammi pieni di note, somigliano alle altimetrie delle grandi corse a tappe. Di certo c’è che i ciclisti da tempo ispirano chi scrive canzoni.
Anche per questo abbiamo pensato di raccontare il Giro anche dalla colonna sonora. Coppi di Gino Paoli, Il bandito e il campione di Francesco De Gregori, dedicata a Girardengo e all'amico bandito Sante Pollastri, e poi Bartali di Paolo Conte e E mi alzo sui pedali degli Stadio. Solo una delle tante canzoni dedicate all'epopea tragica di Marco Pantani, cantato anche dai Nomadi con lL'ultima salita e da Antonello Venditti con Tradimento e perdono.
Ci sarebbe anche Diavolo Rosso, scritta da Paolo Conte, su Giovanni Gerbi, leggendario ciclista degli anni Trenta di cui non è facile rintracciare immagini. Tra i tanti sport che sono diventati canzoni, il ciclismo ha assieme ai motori un posto speciale. Forse perché più di altri, tra fatica improba e pericolo, mettono l'uomo a confronto con il suo limite.
«La salita», spiega Paolo Jachia, autore di numerosi saggi sulla canzone d'autore, «è un concetto che ricorre, in Coppi di Gino Paoli, in Bartali di Conte, ma mi viene in mente anche Che fantastica storia è la vita di Antonello Venditti, che usa la salita e la partita come metafore esistenziali. Se nel ciclismo a colpire l’immaginario è la fatica, nei motori intriga il rischio, la scommessa anche fisica, anche perduta, con la vita: il patto con il destino».