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mercoledì 09 luglio 2025
 
editoriale
 

Basta sacrificare vite innocenti, a Gaza è urgente una tregua

09/06/2025  La rappresaglia è senza sbocchi e non ha senso dividersi in tifoserie. Bisogna riconoscere due popoli e due Stati (di Andrea Riccardi)

Molti soffrono con Israele per le barbare uccisioni (anche di neonati) del 7 ottobre e per gli ostaggi assassinati, oppure tornati a casa dopo tempo o usati come ricatto. Uccidere, come Hamas ha fatto il 7 ottobre, esprime la volontà di annientare un popolo. Ma tanti oggi dicono basta alla strage che sta colpendo Gaza e la sua gente, a partire dai bambini. Le molte morti innocenti sono inspiegabili e disumane: scavano un abisso. L’anima del Medio Oriente è malata di bipolarismo dell’odio che sopraffà ogni senso di umanità. La vendetta è una vertigine che porta lontano. Hamas è un mostro ideologico che ha compiuto atti indicibili. Ma non si possono sacrificare ancora vite umane in una guerra apocalittica. Molti in Israele ne sono consapevoli. Sentono che la rappresaglia porta tutti su una via senza sbocco.

C’è un fatto trascurato da troppi: tra i palestinesi, stanchi di essere ostaggi, c’è chi si vuole liberare di Hamas. Non sono pochi, anche se non possono parlare. Nella Striscia di Gaza la popolazione è al 70% di rifugiati: per decenni un enorme campo profughi, in cui ha prevalso la memoria della nakba, la “catastrofe” del 1948. Qui il terrorismo di Hamas ha manipolato “il sogno del ritorno”. Sacrificare i civili e i bambini del proprio popolo palestinese, nascondendosi dietro di essi, è un crimine. Tanta barbarie rafforza in Netanyahu la convinzione che chiunque viva a Gaza sia complice e dunque sacrificabile. Non è così. Per il diritto internazionale non ci sono punizioni collettive. La guerra a Gaza è apocalittica: senza fine, speranza e scopo. La rappresaglia senza limiti paradossalmente nutre la cultura del martirio dei nemici d’Israele. Ricompare l’antisemitismo in Europa e in America: bisogna arginarlo!

Dividersi in tifoserie opposte, magari facendo la classifica del dolore, non supera l’odio. Scriveva Martin Buber: «Il mondo non è sempre comprensibile ma è abbracciabile». Serve pietas per guardare alla crisi con umanità e ammettere che per decenni la stessa Gaza non è stata abbracciata, messa in agenda, ma dimenticata e celata dietro tanti interessi contrapposti. Ciò ha favorito gli estremismi di ogni tipo. Ora serve con urgenza “abbracciare” tutta questa dolorosa vicenda, per non lasciar più soli i protagonisti, presi nel gorgo dell’odio che li spinge verso orizzonti senza visioni.

La prospettiva dei due Stati è l’unico sbocco realistico. Oggi sembra impossibile: lo conferma la politica dei coloni in Cisgiordania, che ha come reazione la crescita del gradimento dei palestinesi della regione verso Hamas. Ma che alternativa c’è? Cacciare i palestinesi o guerra senza fine? Nessuno dei due popoli può immaginare che l’altro sparisca o se ne vada non si sa bene dove («Dal fiume al mare» dicono gli estremisti delle due parti). Costruire convivenza dopo tanto orrore è faticoso: impossibile per taluni. Ma quale altra possibilità? Trasformare il nemico in vicino è un processo che necessita di tempo, garanzie, visione, amicizie. Il vero nemico è la guerra, che non termina mai e rende gli uomini dei mostri. Oggi Israele e Palestina hanno bisogno che i loro amici agiscano non come tifosi, ma come compagni per il ritorno della pace. Per questo ci vuole una tregua, che calmi gli animi, risparmi vite umane e permetta l’assistenza a una Gaza stremata.

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