La sua avventura terrena affascina perché ricca di opposti. È stata vita speziata, la sua. Ha saputo agire senza dare tregua al corpo saltando da un treno all'altro e ha saputo stare immobile per ore pregando di fronte al tabernacolo nella semioscurità di una cappella. È stato ufficiale degli Alpini e profeta della nonviolenza. Ha parlato e ha taciuto. Ha riso e ha pianto. «Dio prima chiese la mia azione, poi chiese me», scrive nel giugno 1974 sintetizzando in poche battute la sua esistenza.
Tutto comincia in Piemonte, dove Carlo Carretto nasce ad Alessandria il 2 aprile 1910, e tutto finisce 492 chilometri più a sud, in Umbria, a Spello, dove muore il 4 ottobre 1988, festa di San Francesco. II suo viaggio terreno, per la verità, è caratterizzato da innumerevoli tappe spesso distante distanti, distantissime tra di loro, e non solo dal punto di vista geografico. C'è la Torino degli studi, della laurea, della formazione nell'oratorio salesiano della Crocetta e nelle file della Gioventù italiana ad Azione cattolica (Giac) di cui diventa presidente diocesano e c'è la Roma di papa Pio XII , della Presidenza nazionale della Giac (assume l'incarico l'11 ottobre 1946), c'è la piazza San Pietro gremita da 300 mila giovani (la famosa adunata dei Baschi Verdi, 10-11-12 settembre 1948). Ma c'è anche la Sardegna in cui lui, maestro, va il primo marzo 1940, dopo aver partecipato e vinto un concorso per direttore didattico, la Sardegna da dove i fascisti fanno si che si allontani ritornando in Piemonte perché la smetta una buona volta di portare le nuove generazioni a Dio piuttosto che al duce: missione fallita, la loro.
Soprattutto c'è El Abiodh, non lontano da Orano, deserto algerino, mèta per cui Carlo parte il 8 dicembre 1954 deciso a diventare Piccolo fratello di Charles de Foucauld. Dopo tanto impegno apostolico e sociale, con compagni di viaggio notevoli (due nome per tutti: Giuseppe Lazzati e Giorgio La Pira), prende il sopravvento il bisogno di silenzio, di essenzialità. Poche parole, insomma, e tanta Parola (di Dio). Negli anni del dopoguerra aveva animato centinia e centinaia di incontri, giorni (e notti) su e giù per l'Italia. Una vita votata all'Azione catttolica che allora era il retroterra naturale della Democrazia Cristiana. Carlo Carretto aveva scritto nel suo diario: «Il girare per l’Italia per l’azione di apostolato mi procura una stanchezza non tanto fisica quanto spirituale. Ad un certo punto (specie per il gran parlare) mi sento vuoto e tale situazione mi procura tristezza». Ecco spiegato il progressivo distacco, diventato dolorosa rottura quando il collateralismo tra Azione cattolica e Dc si fa sempre più spinto. Ottobre 1952: a Roma ci sono le elezioni amministrative. Luigi Gedda, presidente centrale dell’Azione cattolica, tenta la cosiddetta "operazione Sturzo": un’alleanza di cattolici, monarchici e neofascisti per conquistare il Campidoglio. Un modo per fermare i comunisti. Carretto non è d’accordo con l’uso così palesemente politico dell’Azione cattolica, lo dichiara pubblicamente e si dimette.
Dopo un lungo periodo di riflessione, di viaggi, di colloqui spirituali con figure di spicco del suo tempo arriva ad El Abiodh. Algeria. Il deserto, quello vero, infuocato di giorno e freddo di notte. La vocazione religiosa. «Il faut faire une coupure, Carlo» gli dice il maestro dei novizi. Occorre darci un taglio. Carlo Carretto capisce che cosa vuol dire quella frase. E decide, anche se gli costa dolore. Nella sacca conserva un grosso quaderno dove sono segnati i nomi, gli indirizzie i numeri di telefono di tutti gli amici che ho conosciuto in vent'anni di instancabile lavoro apostolico. Un giorno lo prende e vi appicca il fuoco dietro una duna lasciando che il vento del Sahara ne faccia volare lontano i resti anneriti («Bruciare un indirizzo non significa distruggere l'amicizia, nèe questo mi era richiesto, anzi»). «Dal deserto», annota anni dopo, «le cose si vedono meglio con proporzioni più eterne. Il cosmo prende il posto del tuo paese natio e Dio diventa davvero un Assoluto. Anche la Chiesa si dilata alle dimensioni dell'universo e i lontani, cioè coloro che non sono visibilmente cristiani, diventano vicini. Le dimensioni della Chiesa si allargano all'infinito e vivi il conforto di pensare che Gesù è morto per tutti e ha raggiunto tutti col suo sacrificio supremo».
Carlo Carretto riposa nel cimitero di Spello degli ato da una pianta d'ulivo e da alcuni cipressi. Accanto alla tomba, ancor oggi visitata dai tanti che lo conobbero personalmente e ne furono "segnati" e dai molti che lo hanno conosciuto soltanto attraverso i suoi numerosi libri, e ne sono stati ugualmente "segnati", fanno bella mostra di sè dei vasi di ciclamino. Sopra, un rosarietto di legno. Inciso sulla pietra, il cuore sormontato dalla croce, simbolo dei Piccoli fratelli di Charles de Foucauld. «Quando verrete alla mia tomba chiedetemi di intercedere per la vostra fede», ha lasciato detto. È il 24 marzo 1990, quando il cardinale Carlo Maria Martini, allora arcivescovo di Milano, accompagnato da 150 giovani preti, conclude li alcuni giorni di ritiro vissuti nella vicina Assisi. «Pur se tra loro diversissimi», spiega Martini, «Francesco d'Assisi e fratel Carlo Carretto sono figure che vediamo come accomunate nel tentativo di realizzare il discorso della montagna nel loro tempo. Francesco rimane in una luce altissima, forse un esemplare perfetto, quasi inimitabile di vita coerente con lo spirito evangelico. Ma il messaggio di fratel Carlo è praticamente uguale a quello del santo: anche oggi si può vivere il Vangelo con coerenza e onestà. Il Vangelo non è puramente un nome, una serie di precetti che noi ripetiamo; è una persona concreta e può diventare vita. Gesù può rivivere, la grazia vince sempre e non c'è complessità sociale culturale e politica in cui la grazia evangelica non possa insinuarsi e trovare il canale di comunicazione. Questo è il messaggio che possiamo raccogliere dalla figura di fratel Carlo, che ha irradiato intorno a sé questa fiducia nella vivibilità del Vangelo e nella gioia di viverlo».