Contribuisci a mantenere questo sito gratuito

Riusciamo a fornire informazione gratuita grazie alla pubblicità erogata dai nostri partner.
Accettando i consensi richiesti permetti ad i nostri partner di creare un'esperienza personalizzata ed offrirti un miglior servizio.
Avrai comunque la possibilità di revocare il consenso in qualunque momento.

Selezionando 'Accetta tutto', vedrai più spesso annunci su argomenti che ti interessano.
Selezionando 'Accetta solo cookie necessari', vedrai annunci generici non necessariamente attinenti ai tuoi interessi.

logo san paolo
venerdì 17 gennaio 2025
 
I grandi poeti
 

Nina Cassian, una nuova genesi per il mondo

13/06/2014  Viaggio nell'universo poetico della romena, in "esilio" negli Stati Uniti, una enciclopedia del '900 che tenta di immaginare la realtà a partire dall'esistente, fino alla preghiera finale: «Resuscitami».

L’esilio è per la poesia come una nutrice austera. In esso i fuochi della lingua materna brillano più chiari, il mondo diventa un unico grandioso mistero. Anche Nina Cassian, romena, si è abbeverata a questa fonte oscura, ricavandone una densa lezione. La sua poesia era già ampiamente formata quando il tema del non-ritorno, della fuoriuscita è venuto a visitarla.

Nel 1985 era in viaggio negli Stati Uniti: allora nella sua Romania le rivelazioni di un dissidente arrestato e torturato la mettono in pericolo e la rendono un possibile bersaglio del regime. Così decise di non tornare indietro. Da allora è vissuta negli Stati Uniti, fino alla recente scomparsa (aprile 2014), esprimendosi dunque in romeno e in inglese («Solo un sibilo bilingue» dice della sua lingua) oltre che nelle parole inventate dello spargano.

C’è modo e modo di sparire, suona il titolo della scelta di testi presentati al lettore italiano (C’è modo e modo di sparire. Poesie 1945-2007, a cura di Ottavio Fatica, Adelphi, pp. 304, euro 25,00). Nata nel 1924, la Cassian ha attraversato il secolo (che come Caproni vedeva ferito: «Ma non guarisco dalla ferita del secolo, dalla ferita del mondo»), anzi la sua poesia sembra per molti aspetti una specie di enciclopedia del Novecento, non solo letterario, ma anche artistico, a partire almeno dal surrealismo. Colori, pensiero, forme sembrano attinti a un unico misterioso bulicame caotico e zampillante (non per nulla la poetessa parla di un’«apocalisse ilare»): si tratta insomma, novecentescamente, di rifare il mondo, di immaginarlo a partire dall’esistente, rovesciando e inclinando le categorie, mescolando sogno e veglia, visione e vista.

Come nota Ottavio Fatica, curatore del volume e traduttore dei testi scritti in inglese (quelli in romeno sono tradotti da Anita Natascia Bernacchia), c’è prima di tutto un vasto bestiario nei versi della Cassian: dal cucciolo di squalo alla tigre con gli occhi gialli, dallo scoiattolo al mite asino. Quasi mai naturalistici in senso stretto, questi animali sono l’alfabeto di un universo da rifare. Infatti si tratta, come dice la poetessa, di «giocare alla Genesi», «perché qui come altrove tutto si rimescola».

Anche la musica entra nella nuova creazione, nel caotico convergere delle specie e delle arti (la Cassian si è anche dedicata a comporre musica e a dipingere): più che verso un’ampia sonata (si veda la lunga poesia su Bach), la Cassian ha tuttavia il respiro del testo medio e breve e soprattutto di quello epigrammatico, fino a sconfinare nell’aforisma. Lì sa dare il meglio del suo guizzo inventivo e arioso, con un tocco che ha forse qualche punto di contatto con la grande polacca Szymborska (sua quasi coetanea), nell’ironia, nella leggerezza, anche se intrise qui di onirico e magari di macabro.

Come non molti poeti moderni (viene in mente da noi il versante giocoso di Sanguineti) la Cassian gioca a farsi l’autoritratto, ne sorride (specie parlando del proprio naso), si diverte nell’autocaricatura, che è di nuovo, però, una ricetta di poesia all’insegna della commistione, dell’impurità, dell’invenzione fantastica e dell’antiretorica: «Mi è toccato questo volto strano, triangolare, / questo pan di zucchero o questa / polena degna di navi corsare / e capelli lunghi, lunari, sulla cresta. // Mi è toccato portare in giro un aggressivo contorno / errabondo da mane a sera che spesso / squarcia la retina di chi mi sta dintorno / quando proietto alla parete il mio incongruo essere». Così recitano le prime due quartine di Autoritratto, mentre la terza, la penultima, aggiunge: «A chi appartengo? Mi rinnegano antenati e genitori. / Temporaneamente alleate mi rinnegano le razze, / i bianchi, i gialli, i rossi e i neri. / Neppure la specie mi riconosce tutta d’un pezzo».

Invenzione e scherzo non tolgono serietà alla parola poetica, anzi ne sono il contraltare e la conferma, essa che è tutta protesa a «rendere felicità e dolore gradini della conoscenza».

La poesia, che imprigiona il mondo per ansia di conoscerlo e ricrearlo, ha un suo aldilà, può tentare – ancora alla Caproni – una preghiera paradossale ma non troppo («Se esisti per davvero – fatti avanti»), si tende da giovinezza a decrepitudine fino a un’ombra, un’idea di resurrezione. Da parola a parola, da soffio a sibilo, la poetessa arriva a pensare di risorgere nella lingua materna; a chiedere nella sua non convenzionale preghiera «- resuscitami».

Segui il Giubileo 2025 con Famiglia Cristiana
 
 
Pubblicità
Edicola San Paolo