Roma, settembre 1975. Quello che passerà negli annali della cronaca come il "massacro del Circeo" inizia con un incontro amichevole tra adolescenti. Rosaria Lopez, 19 anni, barista, e Donatella Colasanti, 17 anni, studentessa, sono due ragazze molto riservate e chiuse. Arrivano dal quartiere della Montagnola, ex periferia di Roma e ora agglomerato urbano vicino all’Eur. Un sabato pomeriggio conoscono tre coetanei della Roma bene che si chiamano Gianni Guido, Angelo Izzo e Andrea Ghira. Iniziano a frequentarli, ogni tanto li raggiungono al Fungo dell’Eur, il grande serbatoio dell’acqua con un ristorante al 14esimo piano. Sotto il Fungo si davano in quegli anni appuntamento giovani neofascisti romani dell’alta borghesia.
Izzo e Guido hanno 20 e 19 anni, sono compagni del liceo classico all’istituto privato San Leone Magno, nel quartiere Trieste, uno dei esclusivi della città dove la retta mensile sfiora i due milioni di lire al mese. Si definivano fascisti senza però essere particolarmente impegnati politicamente. Racconterà anni più tardi Angelo Izzo nel corso di un’intervista: «Eravamo guerrieri, quindi stupravamo, rapinavamo, rubavamo. Questo, come la nostra mentalità, aveva anche lo scopo di legarci tra noi, personaggi dell’ambiente pariolino».
La storia comincia il 29 settembre 1975 a San Felice Circeo, sul litorale laziale, a poco più di cento chilometri da Roma. Dopo quella conoscenza iniziale, le ragazze accettano di prendersi un gelato con i tre e poi di andare insieme a una festa a Lavinio. Ma a Lavinio non ci arriverano mai. Vengono portate a bordo di una 127 a Villa Moresca, una dimora di proprietà della famiglia di Ghira che si trova sul promontorio del Circeo, in zona Punta Rossa. Andrea Ghira, 22 anni, è figlio di un noto imprenditore romano, con precedenti per violenze di piazza e già condannato per rapina insieme a Izzo.
In realtà, non c'è nessuna festa dove andare. Donatella Colasanti e Rosaria Lopez si allarmano e chiedono di farsi riportare a casa. A quel punto Guido, Izzo e Ghira gettano la maschera e si mostrano per quello che sono realmente.
Quando la Fiat 127 di proprietà di Guido arriva al Circeo, Ghira è già lì, sulla porta di casa, ad aspettare. I tre ragazzi iniziano a ridere, Izzo tira fuori una pistola. «Quando siamo arrivate nella villa del Circeo, ci hanno fatte subito entrare in casa», ha raccontato Donatella Colasanti al processo, «ci hanno puntato una pistola contro, sghignazzando: “Ecco la festa!”. Poi ci hanno chiuso in un bagno minuscolo, senz’aria. Ci hanno spogliate, tolto gli anelli, i documenti, tutto quello che avrebbe potuto renderci identificabili. Sapevano benissimo cosa stavano facendo. Era tutto preparato. I sacchi in cui ci avrebbero messe, da morte, ce li hanno mostrati subito. Izzo voleva essere protagonista, al centro dell’attenzione. Ripeteva in continuazione che lui era capace di uccidere mentre Ghira faceva il capo del gruppo, sosteneva di far parte della banda dei marsigliesi, di essere molto amico del loro boss, Jacques Berenguer. Anzi, diceva che era proprio per ordine dei marsigliesi che ci avevano catturate. Izzo poi diceva che ci avrebbe ammazzate. L’ora e il modo non erano stati decisi, ma dovevamo morire. “Da qui non uscirete vive” ripeteva con il suo sorrisetto malvagio. Recitava un copione».
Inizialmente i tre propongono un incontro a pagamento e offrono un milione a testa alle ragazze per un rapporto sessuale. Donatella e Rosaria rifiutano sdegnosamente. Compare una pistola, le due vengono picchiate, brutalizzate a turno e chiuse in un bagno. Si tratta di un omicidio premeditato perché i tre in macchina hanno portato dei teli di plastica dove avevano intenzione di mettere i cadaveri. Provano a ucciderle a mani nude, ma non sono killer professionisti.
Rosaria Lopez muore, Donatella Colasanti si finge morta e questo le salverà la vita.
Vengono messe nei sacchi di plastica e caricate nel portabagagli della 127. I tre, con le due ragazze credute morte, partono verso Roma. Nel tragitto ridono e scherzano, la Colasanti li sente dire «ssshh, parliamo piano, dietro c’è gente che sta dormendo». A un certo punto Ghira mette la cassetta con la colonna sonora dell’Esorcista. L’auto si ferma dopo poco più di un’ora, in via Pola, nel quartiere romano Trieste. Ghira, Izzo e Guido scendono e vanno in un ristorante poco lontano per cenare.
Donatella Colasanti, passati alcuni minuti, inizia a picchiare sul cofano. Un uomo che stava passando si ferma, sente dei lamenti, dà l’allarme. Il cofano viene forzato. C’è una foto che racconta quel momento, è una delle immagini più forti e significative dell’Italia degli anni Settanta: è quella di Donatella Colasanti, sconvolta, coperta di lividi e sangue che si affaccia dal baule.
A scattarla è Antonio Monteforte, un fotografo di “nera” che, come si faceva in quegli anni, era costantemente collegato con una radio sulle frequenze delle forze dell’ordine. La chiamata arrivò alle 22.50: «Centrale… c’è un gatto che miagola nel baule di una 127 in via Pola».
Il medico legale accerta la morte di Rosaria Lopez per annegamento, Donatella Colasanti ha numerose fratture, ferite e contusioni in tutto il corpo e il naso rotto.
Izzo e Guido vengono arrestati poche ore dopo, Ghira non viene invece trovato: al processo l’accusa parlò del sospetto che fosse stato avvertito e aiutato a fuggire. C’è un’altra foto emblematica che resterà impressa nella memoria di quegli anni: è quella di Angelo Izzo che ride, davanti ai fotografi, mentre ammanettato viene portato in carcere.

La serie
Circeo in onda in prima serata su Rai 1 in tre puntate (14, 21 e 28 novembre) e premiata ai Nastri D'argento 2023 come miglior docuserie, è diretta da Andrea Molaioli e scritta da Flaminia Gressi, Lisa Nur Sultan e Viola Rispoli (che firma anche come head writer).
Racconta da un punto di vista femminile (e femminista) il processo che seguì il delitto visto, per la prima volta, dalla parte delle donne: le vittime, le loro avvocate e la sopravvissuta. Per questo la Rai ha legato la messa in onda alla Giornata Internazionale per l'Eliminazione della violenza contro le donne che si celebra il 25 novembre.
Nella fiction Greta Scarano interpreta Teresa Capogrossi, personaggio di fantasia che rappresenta tutte le donne avvocate, che hanno ruotato attorno a Donatella Colasanti (interpretata da un'intensa Ambrosia Caldarelli). Teresa Capogrossi è la giovane e ambiziosa avvocata che lavora prima per il noto penalista Fausto Tarsitano (interpretato da Enrico Ianniello) e poi per Tina Lagostena Bassi (interpretata da Pia Lanciotti), impegnata in prima linea per la riforma della legge sulla violenza sessuale.
La serie - prodotta da Cattleya in collaborazione con VIS, Paramount+ e RAI Fiction - ripercorre tutte le fasi del processo seguito al terribile caso di cronaca che ha cambiato radicalmente la società italiana e copre l’arco temporale che va dal giorno che precede il delitto (29 settembre 1975) fino al processo di secondo grado (ottobre 1980) e comprende molti momenti salienti per la politica e la società italiana dell’epoca: l’omicidio Pasolini, la nube tossica di Seveso, l’occupazione di Palazzo Nardini a via del Governo Vecchio, Processo per stupro, la battaglia per l’aborto.
La televisione e i giornali fanno da sfondo e da megafono alla storia per raccontare le mode, i gusti, gli eventi che costellano l’epoca. Le canzoni più famose, i locali dove si andava a ballare, i fotoromanzi, quel che resta di Via Veneto e della Dolce Vita: il rigore e la crudezza del massacro e del processo si scontrano con la voglia di vita e di leggerezza di una ragazzina che non si arrende a essere solo una vittima, vuole vivere, ascoltare musica, ballare e innamorarsi come le sue coetanee.

Il processo
Il 30 giugno 1976 si apre il processo davanti alla Corte d’Assise di Latina, che vede come imputati Angelo Izzo, Gianni Guido e Andrea Ghira, quest'ultimo latitante. L’avvocata di Donatella Colasanti è Tina Lagostena Bassi, una figura di spicco del femminismo italiano di quegli anni.
Gli avvocati della difesa cercano di ottenere la non imputabilità per Angelo Izzo e di infangare la memoria di Rosaria e la reputazione di Donatella suggerendo che i genitori avrebbero dovuto tenere a freno quelle due ragazze, impedendo loro di uscire. Certamente, così, nulla di spiacevole sarebbe accaduto.
La famiglia Lopez decise di non costituirsi parte civile e accettò un risarcimento di 100 milioni di lire da parte della famiglia di Guido. Il processo si chiude il 29 luglio dello stesso anno con una sentenza di ergastolo per tutti, fra gli applausi dell’aula stracolma di donne.
«Non un giorno è mancata la presenza delle femministe, immobili e silenziose, compatte dietro agli avvocati […]. Sentono di essere anche loro vittime in quanto donne: questo è un processo sulla condizione femminile in una società tutta per l’uomo», scrive Massimo Teodori.
Secondo il codice penale dell’epoca, retaggio del Codice Rocco d’epoca fascista, lo stupro era considerato un delitto contro la pubblica morale e non contro la persona. Donatella Colasanti testimoniò, raccontò tutto. Nella sua arringa finale l’avvocato di Guido, Angelo Palmieri, disse: «Se le ragazze fossero rimaste accanto al focolare, dove era il loro posto, se non fossero uscite di notte, se non avessero accettato di andare a casa di quei ragazzi, non sarebbe accaduto nulla». Disse poi l’avvocato: «I giudici lessero la sentenza a tarda notte e sembrava di stare in uno stadio. Dovettero accompagnarci a casa i carabinieri con il furgone, neanche fossimo noi gli imputati».
Izzo, Guido e Ghira (in contumacia) vennero condannati all’ergastolo. Ghira scrisse agli amici in carcere: «Uscirete presto».
Il processo viene seguito dall'Italia con i giornali e le Tv che lo raccontano. Donne da ogni angolo del Paese si presentano al tribunale di Latina per sostenere Donatella e assicurarsi che gli assassini siano condannati all'ergastolo. Da quel momento, infatti, Donatella diventa un simbolo del movimento femminista. Perché in gioco non c'è solo il desiderio di farla pagare ai suoi aguzzini e agli assassini di Rosaria, ma ci sono anche i diritti di tutte le donne. La posta in gioco è alta: cambiare la mentalità di un Paese in cui lo stupro non è considerato un crimine contro la persona, ma un’offesa alla pubblica morale.
Donatella Colasanti (1958-2005) nella sua casa di Roma in una foto degli anni Novanta (Ansa)
Donatella Colasanti, il personaggio, la storia vera
Nella serie è interpretata da Ambrosia Caldarelli. Donatella, 17 anni, ha un carattere indomabile e la lingua tagliente. La sua migliore amica è Rosaria, una ragazza graziosa e dolce. Vivono a pochi metri l’una dall’altra, nei palazzoni del quartiere della Montagnola: una chiesa, un bar, un giardinetto per portare a spasso i cani, la scuola. Tutto qui, non c'è altro. Una vita sicura e noiosa che a Donatella sta disperatamente stretta. Lei vorrebbe fare l'attrice da fotoromanzo o magari la cantante, ma i suoi sogni verranno interrotti quel tragico giorno di settembre del 1975.
Donatella sopravvive, ma la sua vita non è più la stessa. Da quel momento tutti, giornali, radio, televisioni, conosceranno il suo nome e la fama che sperava di ottenere su un palco o di fronte alla macchina fotografica le arriva, opprimente, dalla cronaca nera. Piena di rabbia, Donatella è una giovane donna con una missione sola: ergastolo per gli assassini. Per questo accetta l'offerta di Teresa di diventare la sua avvocata: niente sconti, niente patteggiamenti. E insieme a questo, senza averlo chiesto e senza comprenderne del tutto il significato, accetta anche un'altra cosa: diventare un simbolo del movimento femminista, che vede in quel processo la sua occasione per esplodere.
Divisa tra quello che vorrebbe essere e ciò che altri, nel bene e nel male, vogliono per lei, Donatella combatterà la sua battaglia. Non solo per dare giustizia all’amica che ha perso, ma anche per imporre la propria voce in un mondo che troppo spesso vuole parlare per lei. Due desideri, questi, che entreranno spesso in contrasto, arrivando a mettere in pericolo lo stesso risultato del processo.
Donatella Colasanti è morta a causa di un tumore il 30 dicembre 2005 a Roma all’età di 47 anni.
Che fine hanno fatto Angelo Izzo, Gianni Guido e Andrea Ghira
Di Andrea Ghira (interpretato da Leonardo Mazzarotto) non si è saputo nulla per molti anni. Nel 1995 i carabinieri appostati davanti a una bisca clandestina a Roma fotografarono un uomo con una folta barba che camminava lungo la strada. Qualcuno disse che era lui. È stato ricostruito che subito dopo essere fuggito, Ghira aveva passato qualche mese in un kibbutz israeliano per poi arruolarsi, nel giugno 1976, nella Legione straniera spagnola con il nome di Massimo Testa de Andrés. Ne fu cacciato 18 anni dopo per condizioni psicofisiche non idonee: era diventato tossicodipendente. Morì, secondo le ricostruzioni, a Melilla il 2 settembre 1994: venne trovato a letto con la siringa infilata nel braccio. Solo dieci anni dopo la famiglia rese noto che l’ex soldato morto a Melilla era in realtà Andrea Ghira. L’uomo fotografato a Roma, su cui si erano concentrate le indagini, non poteva essere lui. Il 26 novembre 2005 l’esame del DNA sciolse gli ultimi dubbi: il corpo sepolto a Melilla era quello di Ghira. Donatella Colasanti è sempre stata convinta che quello ritrovato in Spagna a Melilla non fosse il corpo di Andrea Ghira e che l’analisi del DNA fosse stata alterata. Disse, in una delle ultime interviste: «Andrea Ghira è qui, a Roma, libero».
A Gianni Guido (interpretato da Marco Tè), dopo il suo pentimento, in appello fu ridotta la pena a 30 anni. Fuggì dal carcere di San Gimignano nel gennaio del 1980. Fu arrestato due anni dopo a Buenos Aires ma fuggì ancora dall’ospedale militare in cui era stato ricoverato per un’epatite. Fu arrestato nuovamente a Panama nel 1994 ed estradato in Italia. L'11 aprile 2008 è stato affidato ai servizi sociali dopo 14 anni passati nel carcere di Rebibbia. Ha finito di scontare definitivamente la pena il 25 agosto 2009, dopo aver conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere in carcere, fruendo di uno sconto di pena di 8 anni grazie all'indulto. Ora ha 67 anni e vive a Roma.
Angelo Izzo (interpretato da Guglielmo Poggi), dopo l’arresto, per molti anni, ha collaborato a numerose inchieste sul mondo neofascista. Nel 1993, approfittando di un permesso premio, lascia l’Italia. Viene catturato a Parigi ed estradato. Nel dicembre del 2004, detenuto nel carcere di Campobasso, ottiene la semilibertà per andare a lavorare, di giorno, presso una cooperativa. Il 25 aprile 2005 compie un duplice omicidio: uccide Maria Carmela e Valentina Maiorano, moglie e figlia di Giovanni Maiorano, un pentito della Sacra Corona Unita. L’uomo aveva chiesto a Izzo, conosciuto in carcere, di occuparsi della moglie e della figlia, di proteggerle e di aiutarle. Izzo invece le uccise. «La presenza di Maria Carmela, i progetti che faceva, l’idea di fuggire con me all’estero, forse perché pensava che io potessi darle una speranza di vita diversa: tutto questo per me era diventato oppressivo», disse. La figlia fu uccisa per eliminare una testimone.
Nel 2010 Angelo Izzo sposa in carcere la giornalista Donatella Papi che, convinta della sua innocenza, si batte per un certo periodo perché venissero riaperti i processi che avevano sancito le due condanne all’ergastolo del marito. I due divorziano nel 2011. Izzo oggi ha 68 anni e sta scontando un doppio ergastolo per tre omicidi nel carcere di Viterbo.

Da sinistra, Andrea Ghira (1953-1994) in una foto degli anni '70, Gianni Guido, oggi 67 anni, nel 2009 e Angelo Izzo, oggi 68, nel 2010 (Ansa)