Dal "vaffa" all'infame, passando per "pederasta" e "infosfera". Le parole nel discorso pubblico vengono spesso scagliate come pietre, fino sfiorare la rissa verbale nei talk show, senza tanto riguardo per il ruolo che si ricopre, o forse proprio in funzione di quello, cosa impensabile fino a qualche tempo fa.
Se da un lato si rimprovera alla classe dirigente una chiarezza che sconfina nella brutalità, dall’altro a volte l’involuzione sembra dar ragione all’arabesco di Flaiano. L’impressione diffusa è che il potere stia cambiando registro. E già con il vaffa non si scherzava. Il rapporto Ecri del Consiglio d’Europa ha rimproverato ad alcuni politici italiani preminenti di maggioranza di dare, a parole, fuoco alle polveri della discriminazione. Impressioni o realtà?
Michele Cortelazzo, professore emerito di Linguistica italiana all’Università di Padova, Accademico della Crusca, che da sempre studia le parole del potere, ha da poco scritto per Treccani libri La lingua della neopolitica. Gli abbiamo chiesto di aiutarci ad analizzare forme e significati delle parole che scuotono l’attualità.
Professore, in un recente servizio di Piazza pulita si sente il direttore dell’Approfondimento Rai, dare di infame al giornalista conduttore Formigli. Parola riemersa di recente anche in un “fuorionda” governativo, che riflessione le suscita?
«Se ben ricordo, di “infamia” ha parlato l’ha usata per prima la presidente del Consiglio seppure in una chat interna al partito. Qui non si tratta tanto della volgarità, che non è nuova: nel caso di Grillo il “vaffa” era coerente con l’uditorio cui mirava e con la posizione che Grillo aveva: nuova opposizione di tipo in parte populista, in parte qualunquista. Dietro l’uso della parolaccia, emblema di quel momento, c’era una strategia pensata, se si vuole pensata male, ma con una logica riconoscibile. Ma anche nelle scelte di Giorgia Meloni c’è una strategia. C’è chi rimprovera a Giorgia Meloni di non aver mai fatto un corso di dizione, ma io credo che il suo esibire l’accento romano della Garbatella faccia parte dell’immagine di vicinanza al popolo che vuole dare. Io lì vedo una scelta consapevole, magari criticabile come tutte le scelte politiche, ma coerente con altre meno vistose nella stessa direzione: per esempio il chiamarsi Giorgia, addirittura farsi votare come Giorgia, dando una veste amichevole a uno dei passaggi più istituzionali. Lì c’è un disegno».
"Infame" non ne fa parte?
«Stupisce il trasferimento al campo politico della parola “infame”, usata nel significato in cui l’adopera la malavita per accusare di tradimento chi collabora con lo Stato: dovrebbe essere una parola che un politico considera tabù, perché ha dei riscontri storici recenti che restano nella memoria e rimandano ad ambienti - le mafie, le brigate rosse -, che in un Paese democratico dovrebbero suscitare ripulsa unanime. Dovrebbe essere uno di quei termini che chi rappresenta le istituzioni, al governo o all’opposizione che sia, tiene chiuso in bocca, perché riferito a settori che sono il rovescio delle istituzioni, della legalità e dello Stato. Non è tanto questione di polemica dura, al limite dell’ingiuria, che nel discorso politico c’è sempre stata e forse è ineliminabile, ma del contesto di riferimento, incompatibile con il ruolo, perché porta nel terreno dei nemici dello Stato».
Qual è il registro prevalente della comunicazione politica attuale?
«Ci sono oscillazioni forti da periodo a periodo: se questa domanda fosse stata posta tre anni fa, avrei risposto senza esitazione che prevaleva il registro dell’ipersemplificazione. C’è ancora: è quello delle parole-slogan, usate come scritte al neon, immediatamente visibili. Credo che questo sia tuttora il tratto prevalente della lingua politica attuale: per alcuni con la capacità di trovare parole semplici ma evocatrici di un pensiero più complesso, per altri con semplificazione eccessiva e basta. Poi, però ci sono anche altri elementi, diversi. Per esempio Elly Schlein è percepita come persona che usa parole difficili».
Condivide questa percezione?
«In realtà credo che si esprima in parole relativamente semplici, come ci dicono le misurazioni della leggibilità dei suoi testi. Ma in effetti, da una parte è più astratta di altri politici; dall’altra, avendo un’esperienza recente nella politica italiana, non si è ancora liberata di alcune abitudini assunte altrove tra Bruxelles e gli Stati Uniti».
Che dire della infosfera del discorso di insediamento del ministro Giuli?
«È lo sbandamento all’estremo opposto rispetto alla semplificazione estrema: la lingua volutamente oscura. Quello che sembra mancare, tra fughe verso i registri alti e tracolli verso quelli bassi, è un giusto mezzo, adeguato ai discorsi delle istituzioni. Ogni esponente ha il suo registro, ma quasi nessuno ne ha uno lineare. Difficile nel parlato pubblico trovare una via mediana, non nel senso di compromesso, ma di una linea chiara, compatibile con il ruolo istituzionale, anche se pur sempre capace di parlare all’elettorato cui ci si rivolge. Eppure, parlare anche di cose complesse in maniera semplice, senza semplificare troppo la complessità, sarebbe il compito di chi ha posizioni alte».
Abbiamo risentito, in un’e-mail all’interno di Fdl, la parola "pederasta", desueta, per attaccare l’omosessualità. Come interpretare la riesumazione, che l’interessato ha giustificato con il "sentiment" della base politica?
«Magari d’istinto gli era venuta qualche soluzione più cruda in uso lontano dai riflettori, ma impronunciabile in pubblico, e ha pensato di ripescare un’alternativa desueta quasi fosse un eufemismo. Vero è che si è usato pederasta in passato, come massimo grado offensivo dicibile nel discorso pubblico, fin tanto che il termine omosessuale è stato confinato all’ambito medico, ma neanche allora era parola neutra, perché può contenere un’allusione alla violenza sui minori. Tra l’altro mi chiedo quanti miei studenti conoscano la parola "pederasta". Probabilmente pochi. Avesse usato gay, si sarebbe fatto capire meglio e senza offesa. Quanto a "sentiment", il cui significato è "umori", ma che in italiano tanti usano al posto di sentimento con l’idea che faccia più “figo”, si sarebbe potuto dire "comune sentire"».
Il Consiglio d’Europa rimprovera al nostro dibattito pubblico anche istituzionale l’aumento di un linguaggio greve, discriminatorio, usato con intenzione. È un’impressione?
«Non ho dati per dirlo in termini statistici, ma di sicuro l’attuale partito di maggioranza ha impostato una strategia linguistica molto precisa: “siccome per molto tempo ci hanno impedito di dire certe parole, in nome del “buonismo”, della “buona educazione” noi abbiamo il coraggio di dirle”. Non mi riferisco tanto al razzismo che non ho studiato in particolare, ma per esempio a parole come patria, nazione, blocco navale. Lo stesso meccanismo può portare a sdoganare parole a carattere razzistico, discriminatorio che prima anche a destra non si osava pronunciare».
Da un lato la correttezza politica come manifesto, dall’altro la scorrettezza voluta e speculare alla ricerca del consenso: da quando la lingua è terreno di scontro politico?
«Da un certo punto di vista da sempre. Devo anche dire che da qualche tempo l’attenzione al carattere discriminatorio delle parole, iniziata negli anni Novanta, sviluppata prima negli Stati Uniti e poi importata da noi, è arrivata a livelli parossistici: come tutte le politiche giuste, quando si spingono alla parodia di sé stesse, anche questa è diventata un boomerang».
C’è il rischio di esagerare anche dalla parte opposta: il dibattito sul politicamente corretto sta perdendo la misura della realtà?
«In Italia non ancora, negli Stati Uniti sì, da tempo, ma di certo non si contrasta questo rischio diventando beceri. Certi concetti si possono nominare in maniera meno burocratica di come vorrebbe il politicamente corretto, senza per questo trascendere nella volgarità: ma c’è qualcosa che non va se le nebulosità del linguaggio burocratico che abbiamo cercato per anni di combattere ci ritornano riproposte come valore positivo».
Esiste ancora il latinorum, la lingua del potere come sopruso che mira a ingannare, non facendosi capire?
«Sì, ma è l’inglesorum. Ho imparato nell’ultimo decennio di osservazioni linguistiche che, quando un politico mi denomina un provvedimento con un nome inglese, mi devo chiedere dove sta l’inganno. Il jobs act si sarebbe potuto chiamare tranquillamente riforma del lavoro».
Ma allora sarebbero andati in piazza, come in Francia...
«Esattamente, questo modo di fare ha un doppio effetto: il primo è l’annebbiamento, il non far capire bene. Il secondo è dare un sentore di attraente e di moderno a quello che il politico propone. Guarda caso, nei testi ufficiali, poi, questi provvedimenti hanno nomi più burocratici, ma più comprensibili».
Quando comincia la “neopolitica”?
«Direi che la svolta avviene nel 2013, quando Camera e Senato, molto rinnovati, per la prima volta hanno avuto come presidenti due figure entrate in Parlamento per la prima volta con quella legislatura. Il presidente del Consiglio non era neppure parlamentare. Lo stesso presidente della Repubblica, di lungo corso parlamentare ma che non aveva ricoperto mai prima la carica di presidente di uno dei rami del Parlamento né di presidente del Consiglio, ha inaugurato fin dal discorso d’insediamento al Quirinale nel 2015 uno stile comunicativo caratterizzato da chiarezza e frasi brevi. In tutto questo ha sicuramente avuto un peso la necessità di adattare anche la comunicazione istituzionale alla rapidità e alla sintesi dei social».