«La mia religione è molto semplice: la mia religione è la gentilezza». In questa frase, pronunciata dal Dalai Lama, si racchiude il senso profondo di una vita spesa tra spiritualità e impegno civile, tra la difesa della dignità umana e il richiamo al dialogo universale. Il prossimo 6 luglio, il XIV Dalai Lama, Tenzin Gyatso, compie 90 anni. Novant’anni vissuti con il peso della Storia sulle spalle e con il sorriso di chi non si è mai arreso alla violenza, al sopruso, all’intolleranza.
Leader spirituale dei buddhisti tibetani e simbolo mondiale della resistenza non violenta contro l’oppressione cinese, il Dalai Lama rappresenta da decenni una delle figure morali più ascoltate al mondo. Il suo volto sorridente e le sue parole di pace hanno attraversato le frontiere politiche e religiose, conquistando il rispetto di credenti e non credenti, di leader religiosi e di scienziati, di semplici cittadini e di premi Nobel.
Dalai Lama Facebook © Incontro in città del Vaticano, 14 giugno 1988
Nato nel 1935 in una famiglia di contadini nella regione dell’Amdo, nel Tibet orientale, Tenzin Gyatso venne riconosciuto a soli due anni come la reincarnazione del XIII Dalai Lama, secondo la tradizione buddhista tibetana. A 15 anni, nel pieno dell’invasione cinese del Tibet, fu costretto ad assumere pieni poteri politici, diventando guida di un popolo travolto dalla brutalità della geopolitica. Nel 1959, dopo il fallimento della rivolta tibetana contro l’occupazione cinese, il Dalai Lama fu costretto a fuggire in esilio in India, dove ancora oggi risiede a Dharamsala, sede del governo tibetano in esilio.
Da allora è iniziata una delle più straordinarie battaglie pacifiche della Storia contemporanea. Un conflitto combattuto non con le armi, ma con il dialogo, con la forza della parola, con l'autorità morale. Un cammino difficile e irto di ostacoli, segnato da persecuzioni, arresti, distruzioni e repressioni da parte della Repubblica Popolare Cinese. Monaci incarcerati, monasteri rasi al suolo, praticanti del buddhismo privati della libertà di culto: la politica di Pechino ha tentato, nel corso dei decenni, di cancellare l’identità culturale e spirituale del Tibet, imponendo una rigida autarchia basata sul controllo e sulla sottomissione.
Foto © Ansa
Ma la voce del Dalai Lama non si è mai spenta. Al contrario, ha saputo trasformare l’esilio in uno spazio di testimonianza, proponendo al mondo il modello di un Tibet «zona di pace», come delineato nel celebre Piano in 5 punti presentato nel 1987 al Parlamento europeo. Una proposta visionaria, che lega il rispetto per l’ambiente, la difesa dei diritti umani e la salvaguardia della cultura tibetana in un’unica prospettiva di giustizia e sostenibilità.
Il riconoscimento internazionale è arrivato nel 1989, con l’assegnazione del Premio Nobel per la Pace. In quell’occasione, il Dalai Lama dichiarò: «Credo che la verità e l’amore universale siano più forti di qualsiasi arma. È con questi strumenti che continuerò la mia lotta». Parole che hanno trovato eco nei tanti incontri con i Pontefici della Chiesa cattolica, da Giovanni Paolo II a Benedetto XVI fino a Papa Francesco, con cui il dialogo spirituale si è intrecciato al comune impegno per la pace, la giustizia sociale, la libertà religiosa.
«Le religioni sono come fiori diversi nello stesso giardino. Hanno forme, colori e profumi differenti, ma crescono tutte nella stessa terra», ha affermato il Dalai Lama durante uno dei suoi incontri interreligiosi. Una visione che lo ha portato a promuovere costantemente il confronto tra fedi, culture e saperi, sottolineando il valore di un’etica laica fondata su «compassione, gentilezza, rispetto reciproco, responsabilità condivisa». Non un credo confessionale, ma una bussola universale per orientarsi nel mondo complesso di oggi.
La crisi del Tibet, però, resta drammatica. Mentre la Cina rafforza il controllo sui territori tibetani e intensifica la repressione contro ogni forma di dissenso, migliaia di buddhisti continuano a vivere nell’incertezza, tra persecuzioni e divieti. L’autarchia imposta dal Partito Comunista Cinese si estende anche al piano religioso: Pechino pretende di controllare persino il processo di individuazione della futura reincarnazione del Dalai Lama, nel tentativo di neutralizzare la sua influenza spirituale.
Foto © Dalai Lama Facebook
Il Dalai Lama, consapevole di questa sfida, ha più volte dichiarato che la sua successione non potrà essere dettata dal potere politico, ma dovrà avvenire secondo le tradizioni autentiche del buddhismo tibetano e con il consenso della comunità religiosa. In un’intervista recente ha affermato: «Se il popolo tibetano sentirà che non c'è più bisogno del Dalai Lama, la mia istituzione potrà anche terminare. Altrimenti, la mia reincarnazione avverrà dove sarà più utile e libera».
A novant’anni, la sua figura resta un faro in un mondo attraversato da conflitti, crisi ambientali e tensioni religiose. Il Dalai Lama continua a parlare ai giovani, esortandoli ad assumersi la responsabilità del futuro, a difendere il pianeta, a coltivare la pace interiore come premessa per la pace esteriore.
Sua Santità il Dalai Lama e Filippo Scianna UBI ©Tenzin Choejor & Ven. Zamling Norbu_Ufficio di Sua Santità il Dalai Lama
Un messaggio che risuona anche in Italia, dove la comunità buddhista lo considera una guida imprescindibile. «La sua voce ferma e gentile indica una via alternativa ai conflitti che affliggono il mondo: è la voce della pace, della compassione, della responsabilità verso tutti gli esseri senzienti e verso il pianeta», ricorda Filippo Scianna, presidente dell’Unione Buddhista Italiana. «Il Dalai Lama rappresenta un modello di attivismo non violento che parla a tutta l’umanità, al di là dei confini geografici, culturali o religiosi. I valori umani universali non appartengono a una sola religione, ma sono patrimonio comune di tutti».
In un’epoca segnata da guerre e polarizzazioni, la parabola umana e spirituale del Dalai Lama resta una lezione viva: «Sii gentile ogni volta che è possibile», ama ripetere. «È sempre possibile».