Tutti i dati economici confermano che lo svantaggio economico delle donne nei confronti degli uomini rimane significativo, diffuso e difficilmente contrastabile, non solo nel nostro Paese. Nonostante migliori performance scolastiche, ad esempio, le donne ottengono meno occasioni di lavoro, sono in genere sottopagate, e hanno percorsi di carriera più discontinui e penalizzanti – soprattutto sui grandi numeri. Così, rispetto ai loro coetanei maschi, abbiamo più donne laureate, che finiscono gli studi più in fretta, con voti di merito più alti, che però ottengono lavori peggiori, minori opportunità di carriera, retribuzioni inferiori. Ovviamente le politiche attive del lavoro qui possono e devono fare ancora molto, soprattutto per modificare i trend generalizzati e i grandi numeri del mercato: è più facile introdurre ed esigere le quota rosa nei consigli di amministrazione delle grandi aziende che verificare – e parificare - i salari e le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro delle decine di migliaia di giovani maschi e di giovani femmine che ogni giorno si affacciano alla vita attiva.
La fotografia di questa diseguaglianza – di per sé già grave – diventa però ancora più allarmante – e soprattutto iniqua – se si considera che uno svantaggio costante durante la vita attiva genererà uno svantaggio ancora peggiore per le donne una volta che si andrà in pensione, perché redditi e retribuzioni più basse e discontinue implicano inevitabilmente contributi previdenziali inferiori, e quindi uno svantaggio economico per le donne anziane anche rispetto alle pensioni. Insomma, pagare meno le donne oggi significa anche costruire un rischio di povertà per le donne anziane molto più consistente che per gli uomini anziani. “Pensare per generazioni e per generi”significa quindi riuscire a prevenire fenomeni futuri di vulnerabilità economica che sono già noti oggi. Non si può restare immobili, servono urgenti azioni di contrasto, interventi di politica attiva del lavoro, che sappiano prevenire questo futuro di nuove marginalità, che saranno inevitabili, se non cambia qualcosa.
Ma forse oggi, in tempi di allarme rosso per la denatalità e di “inverno demografico”, occorre anche ricordarci che questo svantaggio previdenziale è strettamente collegato anche ad un fattore specifico, già noto a livello internazionale, che potremmo definire “penalizzazione della maternità” (“Is there a motherhood penalty in retirement income in Europe?”, KATJA MÖHRING, Ageing & Society 2018). Vale a dire, lo svantaggio già oggi presente per le donne diventa ancora più grave se le donne sono anche madri. E questo svantaggio riguarda non solo le opportunità del presente (preferisco assumere un maschio perché so che prima o poi una donna potrebbe andare in maternità), ma anche le condizioni previdenziali future. Infatti troppo spesso la maternità contribuisce ad un abbassamento salariale (e contributivo), ad interruzioni nei versamenti e nei salari, e tutto ciò si scaricherà, inevitabilmente, in un ulteriore “svantaggio pensionistico” per le donne – madri. Per dirla breve: già una donna mette a rischio il suo presente lavorativo, quando accetta la sfida della maternità – e non è poco; ma sempre di più questa donna mette a rischio anche le sue prospettive di una vecchiaia serena, con livelli pensionistici almeno “ragionevoli”. Anche questo è un trend consolidato, che se abbandonato a se stesso sarà una tipica “profezia che si autoavvera”: se non facciamo niente oggi avremo subito madri più penalizzate sul mercato del lavoro, che diventeranno anche donne anziane più povere in un futuro non troppo lontano.
A livello internazionale i modelli di welfare hanno tentato in vario modo di venire incontro a questa criticità, ma nonostante questo l’allarme sulla “motherhood penalty” rimane ancora molto alto. Per questo ci pare estremamente importante che nelle più recenti proposte di rivisitazione di “Opzione donna” sia stato introdotta la possibilità di anticipare l’età pensionabile in funzione del numero di figli della donna, perché questa misura, pur se su una platea circoscritta e per una misura limitata, consente di contrastare un fattore di disuguaglianza che genera svantaggi e vulnerabilità per le donne-madri sia nel presente che nel futuro. Insomma, attribuire peso alla presenza di figli nella biografia di una donna non significa attribuire un privilegio ideologico, quanto piuttosto andare a restituire giustizia ed equità per chi è rimasto per troppi anni svantaggiato, per quelle donne che hanno scelto di diventare madri, rigenerando con la loro scelta il futuro dell’intero Paese. Anche per questo, in vista del prossimo 8 marzo, se non vogliamo limitarci ad uno sterile esercizio retorico di enunciazioni di principio a favore delle donne, un primo passo concreto potrebbe essere partire da una seria presa di coscienza della realtà presente e futura di tante donne e madri.
*Direttore Cisf (Centro Internzionale Studi Famiglia)