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sabato 25 gennaio 2025
 
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Perché con la morte di Ramy Elgaml c'è chi evoca la "profilazione razziale"

08/01/2025  Le immagini inedite del Tg della Rai gettano nuova luce sul caso del 19enne morto a Milano lo scorso novembre dopo un lungo inseguimento da parte dei carabinieri: «Un video, un linguaggio e un atteggiamento delle forze dell'ordine che speravamo di non vedere e che fa male», dice il presidente del Naga di Milano Riccardo Tromba

L’edizione del TG3 di martedì 7 gennaio ha presentato diversi nuovi video che contengono i particolari sull’inseguimento - durato quasi 30 minuti - e che potrebbero cambiare il quadro riguardo all’incidente del motorino su cui si trovava il 19enne di origine egiziana Ramy Elgaml, morto a fine novembre a Milano proprio al termine del pericoloso tallonamento da parte di tre auto dei carabinieri dopo il mancato stop a un posto di blocco. A giudicare dalle immagini, i carabinieri sembrano speronare - con numerosi tentativi - lo scooter a bordo del quale si trovano Elgaml e l’amico 22enne che lo guida, Fares Bouzidi. Si sentono spesso gli agenti imprecare ripetutamente proprio perché i due non cadono a terra o anche esultare perché Ramy perde il casco. Infine, sembra che una delle tre automobili dei carabinieri urti la moto prima di finire contro un palo sul marciapiede.

I carabinieri hanno sempre sostenuto che la moto era finita a terra autonomamente, sarà la magistratura a stabilire in che misura queste immagini possano cambiare il quadro della ricostruzione della vicenda. A sostenere la tesi dell’investimento intenzionale da parte dei militari c’era sia la deposizione di Bouzidi, il giovane che guidava lo scooter, sia un testimone oculare. Bouzidi aveva parlato di “un impatto tra l’auto dei carabinieri e la moto” prima che cadesse. Questo aveva portato nei giorni successivi sia a manifestazioni violente, sia a cortei pacifici che chiedevano giustizia e verità per Ramy nel quartiere da cui veniva Elgaml, Corvetto, a Sud-Est del capoluogo lombardo. I video del TG3, sono girati in parte dalla telecamera montata su una delle tre automobili dei carabinieri e da alcune videocamere fisse del comune di Milano.
Alcune comunicazioni scambiate tra gli agenti dopo il primo urto tra lo scooter e l’automobile sono di questo tenore: «Vaff**, non è caduto!». In un’altra clip si sente urlare «Chiudilo chiudilo chiudilo». La moto non cade, e si ascolta un carabiniere imprecare di nuovo: «No, m*, non è caduto!».
Dopo l’impatto i video fissi delle telecamere di Palazzo Marino sembrano mostrare quanto sosteneva il testimone che avrebbe assistito allo schianto e che sarebbe stato obbligato dagli uomini dell'Arma - aveva ammesso - a cancellare il video in cui filmava tutto. Infatti dei tre agenti indagati, due sono accusati di “falso in atto pubblico, perché avrebbero omesso dal verbale d’arresto l’impatto tra l’auto dei carabinieri e il motorino”. Ma sono accusati anche di depistaggio.

Yehia Elgaml, padre di Ramy si è più volte dissociato dai gesti violenti, chiedendo verità sulla morte del figlio: «Nessuna vendetta. Rispettiamo la legge del nostro Paese, l’Italia. Abbiamo fiducia nella magistratura italiana, vogliamo solo sapere ciò che è successo. Ci dissociamo da tutti i violenti, e ringraziamo tutti per la loro vicinanza». Eppure durante le manifestazioni di fine novembre e inizio dicembre erano molti i cartelli che accusavano i carabinieri di profilazione razziale per aver inseguito i due per tutta la città a causa - dicevano - del colore della loro pelle. È davvero così? La questione è controversa, tutta da dimostrare sul caso in questione, ma è un fatto che sia stata evocata nelle manifestazioni di protesta. Entrambi sono - cosiddetti - ragazzi di seconda generazione, ovvero nati in Italia da genitori stranieri, che rappresentano circa il 20% della popolazione di Milano. «Si tratta soprattutto di famiglie, di residenti, di regolari. Di questi, molti sono giovanissimi che a causa dell’assenza di una legge sulla cittadinanza che si accordi a queste trasformazioni demografiche e sociali, rende queste persone nate in Italia, straniere», dice Riccardo Tromba, dell'associazione Naga, che si occupa di assistenza legale e sanitaria per gli stranieri a Milano e che vede nella mancanza di un riconoscimento giuridico di queste persone la costruzione di un confine e di un margine. «Vedere quel video e ascoltare quelle espressioni mi ha fatto male, personalmente. La morte di Ramy Elgaml mostra la diffusione di una pratica che viene denunciata da chi assistiamo quotidianamente e che ci racconta che il trattamento che le forze dell'ordine riservano a chi è straniero può essere spesso basato sull'intimidazione. Inoltre sono diversi gli enti internazionali, come l’Ecri, l’agenzia contro il razzismo del Consiglio d’Europa, che hanno stilato report che spiegano come le forze dell’ordine italiane attuino quella che viene definita profilazione razziale. In Italia, cioè, una persona non bianca rischia di essere sottoposta più spesso a controlli e fermi anche arbitrari rispetto a una bianca», aggiunge Tromba.

Al di là del caso in questione, la Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza definisce la profilazione razziale come «l’uso da parte delle forze dell’ordine, quando procedono a operazioni di controllo, sorveglianza o indagine, di motivi quali la razza, il colore della pelle, la lingua, la religione, la nazionalità o l’origine nazionale o etnica, senza alcuna giustificazione oggettiva e ragionevole». Nel settembre 2024 un gruppo di esperti indipendenti delle Nazioni Unite ha lanciato un monito sul tema della profilazione razziale in Italia, sottolineando che «le politiche repressive contro le droghe colpiscono in modo sproporzionato minoranze e altri gruppi vulnerabili». Inoltre sempre l’Onu lo scorso anno aveva denunciato il numero sproporzionato di persone italiane di discendenza africana incarcerati in Italia. Infine, lo scorso ottobre la Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza ha pubblicato un rapporto sull’Italia in cui è usata 17 volte l’espressione “profilazione razziale” e si sottolinea che le autorità ignorano il problema.

Cosa fare, dunque? «Urgentemente credo si debba procedere a una demilitarizzare di tutto il processo di gestione dell’immigrazione. In Svizzera, ad esempio, la gestione dell'immigrazione viene effettuata dal punto di vista amministrativo ed è affidata agli enti locali e non alla polizia. Facendo questo, avremmo già fatto un grandissimo passo avanti per evitare tensioni. All'inizio del 2023 noi del Naga eravamo tra quelli che stavano in via Cagni davanti agli uffici della questura. Gli agenti urlavano degli ordini in italiano, e le persone non li comprendevano, era evidente che non capivano cosa stessero dicendo. E l'unica risposta che veniva data era urlare più forte». 

Infine, come dimostra anche il caso di Ramy, «l'idea di controllare il territorio, militarizzandolo, non solo non è realizzabile, ma è anche controproducente. Credo che serva una maggiore presenza della Cosa pubblica, ma intesa come biblioteche, uffici pubblici dislocati in periferia, parchi e pacchetti pubblici, campi da basket o tavoli da ping-pong. Questo funziona e a dimostrarlo sono proprio i risultati ottenuti laddove questo è stato fatto. Come in alcune zone di Milano, tra cui Corvetto».

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