La presentazione degli "Incontri del Mediterraneo".
Marsiglia,
dalla nostra inviata
Non è un lavoro popolare quello dei teologi. E la domanda “può la teologia aiutare a cambiare il mondo?” a molti potrebbe sembrare un non-sense. E invece le donne e gli uomini che sulle sponde del Mediterraneo studiano il mistero e il rapporto tra la vita e la fede sentono di avere una grande responsabilità nell’oggi: «Lavorare per una teologia che dal Mediterraneo possa contribuire a generare percorsi di fraternità, condivisione e pace all’interno delle comunità credenti e in dialogo con quanti si spendono per la costruzione di un mondo fraterno». Lo scrivono nel manifesto “Per una teologia dal Mediterraneo” che è stato presentato ieri sera nell’ambito degli “Incontri del Mediterraneo”, la settimana di dialogo e riflessione promossa dall’arcidiocesi di Marsiglia, terzo evento dopo i due appuntamenti di Bari e Firenze voluti dalla Cei nel 2020 e nel 2022.
L’incontro, che oggi e domani vede la presenza di papa Francesco, è stato preceduto da una serie di incontri con alcuni giovani e vescovi provenienti dalla diocesi del Mediterraneo. Sul tavolo vari temi: economia, educazione, lavoro, pace ed ecologia. Sabato, i vescovi e i giovani presenteranno al un documento di 10 pagine. E al Papa sarà presentato anche il manifesto dei teologi. In dieci lingue, tra le quali arabo ed ebraico, il testo è stato curato da 17 istituzioni che si affacciano sulle cinque rive. Frutto di un percorso di scambio, tra le persone e le discipline, racconta di incontro tra tra Libano e Spagna, Italia e Francia, Nordafrica, Balcani, Medioriente.
«Scegliamo di fare una teologia relazionale, che parte dall’ascolto e dall’incontro. Non sempre noi teologi abbiamo avuto questo approccio», dice il professor Patrice Chocholski, dell’Istituto cattolico del Mediterraneo di Marsiglia. «Sentiamo la responsabilità di rifondare il nostro discorso sul senso e sulle relazioni umane, nelle quali c’è anche la relazione con Dio. Questo può aiutare i teologi, i pastori e tutta la comunità cristiana a rifocalizzarsi, perché il dialogo è il luogo di Dio».
«Sentiamo la responsabilità di accettare la nostra singolarità, che non è a-cosmica, disincarnata, generale. Siamo stati pigri nei secoli, abbiamo studiato la teologia tedesca, quella cartesiana, ora vogliamo correre il rischio di prendere la parola, perché la parola è il centro della nostra fede», aggiunge la teologa Marie-Laure Durand. «Ed è una parola di speranza. La teologia ha compito di aiutare a leggere la realtà con uno sguardo differente, lo sguardo di Dio. Che non è qualcosa di estraneo alla terra, il cielo va scoperto tra le pieghe di quello che accade nella nostra storia comune. Anche nella tragedia degli sbarchi, nelle tensioni di carattere geopolitico il Mediterraneo esprime una promessa di fraternità», dice la professoressa Pina De Simone, che insegna alla Pontifica facoltà teologica dell’Italia meridionale sezione San Luigi, a Napoli. È una teologia che «vive dell’ascolto della Parola e della vita degli esseri umani», che «riconosce nella storia non uno spazio meramente applicativo, bensì il luogo in cui comprendere il senso autentico dell’annuncio del Vangelo», dice il manifesto.
Gli inizi
L’idea era stata lanciata nel 2019, a Napoli, dove Francesco aveva chiuso il convegno alla facoltà teologica di San Luigi chiedendo ai teologi di scendere in campo, di non restare chiusi nella facoltà ma diventare «etnografi spirituali», per incontrare la gente «la dove si formano i paradigmi, i modi di sentire, i simboli, le rappresentazioni delle persone e dei popoli». Un pensiero che è tornato nei diversi viaggi pastorali – Lampedusa, Tirana, Sarajevo, Gerusalemme, il Cairo, Rabat, Malta - e attraversa il manifesto sulla Fratellanza umana di Abu dhabi.
Naufragio e grembo
Ha dunque profumi, sapori e colori la teologia che viene presentata. «Ci spinge verso le profondità del Mediterraneo, e ci costringe ad attraversarne le città, i porti, i luoghi di culto, le casbe, le porte…, là dove avviene il meticciato: frutto di incontri e di conflitti, di dialoghi e di compromessi, di accoglienza e di rifiuti», scrivono i teologi. Nell’icona del naufragio e in quella del grembo si muove la riflessione sul mare nostrum: da un lato «tomba: luogo di ingiustizie e di disuguaglianze, deportazioni e stragi. Un luogo dove tutti siamo naufraghi: perché quello a cui assistiamo nel Mediterraneo è un naufragio di civiltà». Ma anche «grembo che ha visto sorgere il pensare credente, non solo quello cristiano. Qui, non senza conflitti e martirii, hanno preso forma quei modelli teologici che ancora oggi sono termine di confronto per nuove teologie elaborate anche al di fuori di esso».
Una teologia non neutra
Il Mediterraneo come luogo teologico, allora, attento alle storie di vita dei singoli e delle comunità, a favore di una teologia più narrativa, affettiva. Non neutra, perché fa un’opzione preferenziale per le minoranze e i più vulnerabili. «È una teologia militante», dice De Simone. «È la postura di Gesù, impegnata», aggiunge Chocholski. Parla dunque di cittadinanza e giustizia sociale. Della «necessità di una gestione non disumana e saggia dei flussi migratori, che non usi le migrazioni come pedina nella scacchiera della geopolitica internazionale»; che assume l’impegno «a difendere nelle nostre società il diritto alla “piena cittadinanza”» perché «si diventa pienamente cittadini quando si è posti nella condizione di poter contribuire a tutti gli effetti alla vita del paese in cui si vive e che si sente come proprio, e quando a ogni uomo o donna vengono garantiti gli stessi diritti. A tutti deve essere riconosciuta questa possibilità, a prescindere dalla cultura a cui si appartiene o dalla religione che si professa. La piena cittadinanza reca in sé anche il diritto alla libertà religiosa troppo spesso calpestato o negato».
Le caratteristiche
Il manifesto definisce la caratteristiche della teologia che viene dal mare: umile, «che non dà risposte preconfezionate, ma si lascia abitare dalle provocazioni di questo mare e dalle terre da esso raggiunge»; accogliente, che non tema la pluralità, perché «aiuta a considerare le differenze non come un intralcio» e guarda all’altro, chiunque egli sia, «nella ricchezza di cui è portatore»; non eurocentrica, «perché la fede non può chiudersi dentro i confini della comprensione e dell’espressione di una cultura particolare».
I teologi e le teologhe prendono alcuni impegni precisi, a partire dal lavorare con i pastori, «in una relazione di reciproco sostegno, noi teologi possiamo sentirci riconosciuti nella diakonia dell’intelligenza della fede e loro possano sentirsi accompagnati e incoraggiati nel loro delicato servizio di discernimento e responsabilità ecclesiale». In questo senso va anche l’attenzione a superare il divorzio tra teologia a pastorale, e promuovere percorsi accademici che valorizzino le prassi ecclesiali, che dialoghino con la pastorale e la accompagnano nel rinnovamento. Anche nell’attenzione specifica alla religiosità popolare.
C’è quindi l’impegno a fare rete e a promuovere scambi tra i diversi centri teologici e culturali delle Chiese cristiane, tra le diverse espressioni delle realtà ecclesiali e religiose e quelle che promuovono cultura e impegno sociale. Sabato verrà infatti annunciata la costituzione di una rete teologica mediterranea, che in ogni paese sarà chiamata con la sua lingua e avrà una sigla comune. Infine c’è l’impegno a realizzare nuovi percorsi didattici, multi e trandisciplinari, proprio perché una teologia che nasce dal Mediterraneo viene intesa come una «scienza delle frontiere» in cui il mare diventa metafora della «navigazione» aperta alla ricerca mai appagata e i «ponti», le «strade» e le «piazze» del mondo antico divengono i simboli dell’incontro tra culture diverse.
Ciò che respinge per principio la teologia dal Mediterraneo è la legittimità della costruzione di «muri» ideologici e di qualsiasi altro genere.