È il caso di dire: è tutto Giusto, non c’è nulla da rifare! Gino Bartali è stato dichiarato Giusto tra le nazioni dallo Yad Vashem, il Memoriale delle vittime dell’Olocausto. E il figlio Andrea ci guida in una Firenze assediata da appassionati del ciclismo provenienti da tutto il mondo per assistere alla corsa iridata. «La comunità ebraica ha detto che se mio padre avesse parlato prima, il riconoscimento sarebbe arrivato molto tempo fa». Ma Gino Bartali era fatto così.
Andrea Bartali ha una grande voglia di mostrarci la Firenze più intima, quella dove il papà s’incontrava con una giovane ragazza, Adriana, che poi avrebbe sposato, racconta quel carattere all’apparenza spigoloso e ruvido ma che nascondeva angoli di bontà e generosità.
«Non disse nulla fino a pochi anni prima di morire. Quando gli chiesi perché fosse stato zitto tutto quel tempo, mi rispose come solo lui sapeva fare: “Perché il bene si fa e non si dice. Quando fai l’amore lo racconti, forse?”. Tacque anche a noi, mamma e tre figli, che aveva nascosto una famiglia ebrea in una cantina della casa accanto a quella dove abitavamo. Diceva che erano suoi amici, che li ospitava per un po’ ma non sapevamo nulla della realtà».
Un aiuto nella ricostruzione delle vicende di guerra è arrivato anche da Laura Guerra, giornalista appassionata di ciclismo, nel comitato direttivo della Fondazione Bartali (www.fondazionebartali.it), e ricercatrice infaticabile di documenti e persone che potessero confermare quanto il campione toscano si sia adoperato per una causa giusta.
I Goldenberg. Una famiglia di quattro persone che Bartali nascose durante la Seconda guerra mondiale, per salvarli dal nazifascismo. Il campione non fece solo questo: fu il cardinale di Firenze, Elia Dalla Costa, anch’egli Giusto tra le nazioni dal 2012, a coinvolgerlo nel salvataggio di circa 800 ebrei.
«Papà disse sì, nonostante i pericoli. Era un uomo coraggioso. Prendeva i documenti dalla Curia, li nascondeva nel telaio della bici e li portava ad Assisi, in un convento, o a Roma, in Vaticano».
Un rischio enorme, pedalando da Firenze a Roma, in piena guerra, con strade distrutte e controllate dai militari: «E tutto in giornata, così nessuno poteva sospettare. Papà veniva fermato dalle pattuglie ma era Bartali e si stava allenando, no?», sorride Andrea, sguardo sornione e orgoglioso.
Firenze-Roma in giornata? «Era abituato, si allenava andando in bici da Firenze a Milano. Ho provato a calcolare con lui quanti chilometri abbia percorso nella sua carriera. Gli dissi che potevano essere più di un milione di chilometri pedalando. Disse solo: “Facciamo 700 mila, così non se ne parla più”».
E pensare, invece, che di Ginettaccio si parla ancora, e non solo per il ciclismo. Anche Andrea ha avuto la bicicletta come passione? «Per carità. Quando la Legnano, la casa per cui correva mio padre, mi regalò una bicicletta su misura – avrò avuto sei o sette anni – lui non voleva che uscissi dal cancello. Poi, un giorno, la bici sparì. E lui riuscì a convincermi che era colpa mia: “Vedi Andrea, la bicicletta non ti piace, altrimenti non l’avresti persa. Guarda me, che me la porto in camera, ci parlo, l’accarezzo. Tu, invece, chissà dove l’hai lasciata”. In realtà, temeva che uscendo diventasse pericolosa e la sequestrò».
Sapeva, Gino, che di bicicletta si può anche morire, come capitò a suo fratello Giulio, di due anni più giovane, investito durante una gara di dilettanti. E come, anni dopo, capiterà al fratello di Fausto Coppi, Serse. E forse è per questo che quella di Gino, di bicicletta, ha avuto il compito di salvare dalla morte 800 persone. Ma in silenzio, perché «il bene si fa, non si dice».